La storia è tratta dal Jataka, una raccolta di più di 500 storie che raccontano storie sulle vite anteriori del Buddha. Il Jataka fa parte del Canone Buddhista in lingua Pali, nella sezione Khuddaka Nikaya. Questa, come molte altre storie, ripropongono in forme diverse la vicenda che sarà poi del giovane Siddhattha. La storia narra della volta in cui il Bodhisatta (il titolo del Buddha prima di conseguire il risveglio, ovvero "essere destinato al risveglio") nacque come re di Bārāṇasi, figlio di Brahmadatta. Egli fu chiamato Pañcāvudha-kumāra a seguito della volta in cui ottocento bramini profetizzarono che avrebbe ottenuto la gloria grazie all'abilità nelle armi. Egli dopo aver concluso gli studi a Takkasilā, e aver ricevuto in quella circostanza dal maestro cinque armi, si avviò sulla strada di ritorno a casa. Sulla via incontrò in una foresta buia e chiusa, un orco di nome Silesaloma, contro il quale le sue armi non furono efficaci, venendo loro di volta in volta bloccate dagli ispidi capelli dell'orco. Tuttavia l'orco, meravigliato dal coraggio e dall'impavidità del giovane guerriero, si decise di liberarlo, risparmiandogli la vita. Il giovane insegnò all'orco la dottrina e lo convertì. Il topos del viaggio, fa da cornice alla storia, riproponendo la vicenda del giovane principe, come la metafora del viaggio della vita e dell'addestramento spirituale, che qui in primis è quello del Bodhisatta, che un giorno tornerà nel mondo come Siddhattha e come Buddha offrirà ai suoi abitanti, i frutti del suo lungo addestramento. L'allontanamento dal focolaio domestico, rappresenta l'allontanamento dalle effimere certezze, verso la maturazione e l'apprendimento, rappresentato dallo studio e dal maestro. Non è difficile cogliere nelle cinque armi, nel cui uso il principe sarà formato dal precettore, un rimando ai Cinque Precetti o ai Cinque Poteri spirituali, alla base dell'addestramento spirituale buddhista e della meditazione. Tuttavia l'addestramento non si esaurisce nell'apprendistato formale, che termina con la consegna al giovane guerriero delle cinque armi, bensì trova il suo compimento nella vita quotidiana, ovvero sulla strada verso casa, con tutti i suoi pericoli e le sue prove, ovvero la foresta e il suo abitante: l'Orco. A nulla valgono i consigli degli abitanti fuori la foresta, il ragazzo impavido affronta con coraggio il periglio, sicuro delle sue armi e del suo addestramento. Nel bosco avviene l'incontro con il terrifico orco, che lo assale e contro il quale il giovane guerriero scaglia le sue armi, che si impiglieranno tra i capelli del mostro. Non è qui difficile cogliere l'analogia con i vizi, le passioni, gli inquinanti del cuore che attanagliano l'uomo nel corso della vita, nei quali s'impigliano buone intenzioni, aspirazioni, volontà e sforzi. Tuttavia il giovane non demorde e con indomita sicurezza urla al suo nemico, di non temere la morte, perchè essa è comunque il destino di ogni essere, e che in verità non nelle cinque armi egli confidava, bensì in sè stesso, giacchè in lui alberga un fulmine, che ove ingerito con le sue spoglie dall'orco, lo avrebbe incenerito. Il fulmine che risiede in lui, è il fulmine della conoscenza, che svela al guerriero la vera natura degli orchi che popolano le foreste che si attestano sulla via di casa. Di fronte a tanto coraggio l'orco si arrende e ascoltando gli insegnamenti del giovane, diviene uno spirito benevolo della foresta. Anche in questo passaggio troviamo una metafora preziosa: la via verso casa non puo' essere liberata dalle foreste, dagli ostacoli. La battaglia, forte dell'addestramento ha come fine quello di trasformare e soggiogarne gli abitanti, comprendendone la vera natura. Vi auguriamo una buona lettura.
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"Sento che c'è una sorta di resistenza. L'ostacolo più grande per me sento che sia quello di affidarmi, aprirmi alla pratica. Sento come un blocco. So che sedermi e meditare è una cosa buona, che mi porterà a sentirmi serena, ma ancora mi devo "sforzare". Alla fine della sessione e degli incontri sto bene, mi sento più determinata, ma c'è ancora resistenza. Ogni volta che ho dedicato anima e corpo ad una cosa (il teatro, lo yoga, il lavoro, il coltivare un gruppo di amici), alla fine mi sono sempre trovata a navigare da sola e questo senso di abbandono mi fa tirare i remi in barca. Come se non avessi più energie da investire. Magari col tempo e continuando qualche risultato inizierà a vedersi...". Riflessione: "Si, sicuramente il tempo è una variabile importante. Il Dhamma lavora nel corso della vita. È un po’ un equivoco quello di associarlo a un momento in cui tutto accade e poi si rimane accesi come una lampadina. Il risveglio é risvegliarsi alla vita. Abbandonarsi alla pratica, é aver finalmente imparato ad avere fede nella bontà assoluta della vita, alla quale possiamo abbandonarci, senza paura e ansia. Nel tempo di una sessione seduti sul cuscino, ma anche negli istanti prima e dopo che ci siamo seduti, viviamo condensata la nostra vita. Sul cuscino c’è tutto il nostro passato e il nostro futuro. Sul naso il presente. Sedersi é questo per me, sedersi è un arte, un lento apprendistato. Imparare a vivere quello che accade in una seduta, a sedersi, è imparare ad accogliere la vita nella sua incertezza, nella sua imprevedibilità, nel suo essere essere frantumato in momenti; ombre che appaiono e scompaiono, che non puoi trattenere. Siamo tutti Peter Pan, alla ricerca della nostra ombra da ricucire. Un giorno poi ci accingiamo a sederci, sentiamo che non ci importa cosa accadrà su quel cuscino, quanta paura abbiamo di sederci, quanta poca voglia abbiamo di rimanere immobili sul cuscino. Il voto di vivere quel momento fino in fondo, sarà adempiuto. E' che non ci importa più, non importa più nemmeno sapere cosa non ci importa più. Il voto di sedermi non è mio. Si manifesta in me. Sedermi è rendere manifesto ciò che sento, ciò che come un dono è entrato sommessamente nel mio cuore, nel mio corpo, il Dhamma. Non è una scelta. Ne più ne meno dei capelli bianchi o la pancetta. La vita è la stessa cosa. L’unico voto che abbiamo con noi stessi, a causa del nostro essere vivi, è quello di vivere la vita che ci ritroviamo tra le mani, sotto i piedi, sotto le chiappe (come in meditazione), fino all’ultimo respiro (come in meditazione). Dipenderà da noi, da come abbiamo vissuto, se sarà nel tormento e nella paura o nella pace, in meditazione come non in meditazione. Allora una volta seduti, ci potremo sentire come Peter Pan, mentre Wendy gli stava ricucendo finalmente l'ombra addosso. Un buddismo che afferma la vita che ci insegna a trovare la felicità, aprendoci alla ricchezza della nostra vita quotidiana.
Questo è quello che vogliamo, o almeno così ci dicono le persone che cercano di venderci un buddismo "mainstream". Ma è quello che ci serve? Questo è Buddhismo? Ripensa per un momento alla storia del giovane principe Siddharta e ai suoi primi incontri con la vecchiaia, la malattia, la morte e un asceta errante. È uno dei passi più letti della tradizione buddista, a causa della spontaneità e sincerità delle emozioni del giovane principe. Conobbe l'invecchiamento, la malattia e la morte con orrore e ripose tutte le sue speranze nella vita contemplativa nella foresta come l'unica via d'uscita. Asvaghosa, il grande poeta buddista, descrivendoci la storia, pare che in quel momento al giovane principe non mancassero amici e parenti, i quali cercavano di persuaderlo dal distogliersi da quelle riflessioni, e Asvaghosa con dovizia ci ha riportato le lusinghe con le quali essi dipingevano la vita al giovane principe. Tuttavia, il principe si rese conto che se avesse ceduto ai loro consigli, avrebbe tradito il suo cuore. Solo rimanendo fedele ai suoi sentimenti sinceri, è stato in grado di intraprendere il percorso che lo ha portato ad abbandonare i valori mondani della sua società e volgersi verso il Risveglio e al'Immortale. Questa non è certo una storia che afferma la vita nel senso comune del termine, bensì qualcosa di più importante della vita: la verità del cuore che aspira a una felicità assolutamente pura. Il potere di questa aspirazione dipende da due emozioni, chiamate in lingua Pali "samvega" e "pasada". Pochissimi di noi ne hanno sentito parlare, ma sono le emozioni più basilari della tradizione buddista. Non solo hanno ispirato il giovane principe nella sua ricerca del Risveglio, ma anche dopo essere diventato il Buddha ha consigliato ai suoi seguaci di coltivarli quotidianamente. In effetti, il modo in cui ha gestito queste emozioni è così distintivo che potrebbe essere uno dei contributi più importanti che i suoi insegnamenti hanno da offrire alla cultura americana oggi. Samvega era ciò che il giovane principe Siddharta provò al suo primo contatto con la vecchiaia, la malattia e la morte. È una parola difficile da tradurre perché copre una gamma così ampia di significati, almeno tre gruppi di sentimenti contemporaneamente: il senso opprimente di shock, sgomento e alienazione che derivano dallompiaa realizzazione della futilità e dell'assenza di significato della vita come viene normalmente vissuta; un senso castigante della nostra stessa compiacenza e stoltezza nell'esserci lasciati vivere così ciecamente; e un ansioso senso di urgenza nel cercare di trovare una via d'uscita dal ciclo senza senso. Questo è un insieme di sentimenti che tutti abbiamo sperimentato in un momento o nell'altro nel processo di crescita, ma non conosco un singolo termine inglese che copra adeguatamente tutti e tre. Sarebbe utile avere un termine del genere, e forse è una ragione sufficiente per adottare semplicemente la parola samvega nella nostra lingua. Più che fornire un termine utile, il Buddismo offre anche una strategia efficace per affrontare i sentimenti dietro di esso. Sentimenti che la nostra cultura trova minacciosi e gestisce molto male. La nostra, ovviamente, non è l'unica cultura minacciata dai sentimenti di samvega. Nella storia di Siddhartha, la reazione del padre alla scoperta del giovane principe rappresenta il modo in cui la maggior parte delle culture cerca di affrontare questi sentimenti: ha cercato di convincere il principe che i suoi standard di felicità erano incredibilmente alti, cercando allo stesso tempo di distrarlo con relazioni e ogni piacere sensuale immaginabile. In parole povere, la strategia era quella di convincere il principe ad abbassare i suoi obiettivi e di trovare soddisfazione in una felicità meno che assoluta e non particolarmente pura. Se il giovane principe vivesse oggi in America, il padre avrebbe altri strumenti per affrontare l'insoddisfazione del principe, ma la strategia di base sarebbe essenzialmente la stessa. Possiamo facilmente immaginarlo mentre porta il principe da un consigliere religioso che gli insegni a credere che la creazione di Dio è fondamentalmente buona e non si concentri su alcun aspetto della vita che metterebbe in dubbio quella convinzione. Oppure potrebbe portarlo da uno psicoterapeuta che tratterebbe i sentimenti di samvega come un'incapacità di accettare la realtà. Se le terapie verbali non ottenessero risultati, il terapeuta probabilmente prescriverebbe farmaci che altererebbero l'umore per attenuare i sentimenti fuori dal sistema del giovane, in modo che potesse diventare un membro produttivo e ben adattato della società. Se il padre fosse davvero al corrente delle tendenze attuali, potrebbe trovare un insegnante di Dharma che consiglierebbe al principe di trovare la felicità nei piccoli piaceri miracolosi della vita: una tazza di tè, una passeggiata nei boschi, l'attivismo sociale, alleviare il dolore di un'altra persona. Non importa che queste forme di felicità sarebbero comunque interrotte dall'invecchiamento, dalla malattia e dalla morte, gli avrebbe detto. Il momento presente è tutto ciò che abbiamo, quindi dovremmo cercare di apprezzare l'opportunità agrodolce di assaporare ma non aggrapparci a brevi gioie mentre passano. È improbabile che il principe dal cuore di leone che conosciamo dalla storia avrebbe seguito uno di questi consigli spassionati. Li vedrebbe come una propaganda per una vita di quieta disperazione, che gli chiede di essere un traditore del suo cuore. Ma se non avesse trovato conforto da queste risorse, dove sarebbe andato nella nostra società? A differenza dell'India del suo tempo, non abbiamo alternative consolidate e socialmente accettate per essere membri economicamente produttivi della società. Anche i nostri ordini religiosi contemplativi sono apprezzati per la loro capacità di fornire pane, miele e vino per il mercato. Quindi il principe probabilmente non avrebbe trovato altra alternativa che unirsi agli sbandati e agli emarginati, ai radicali e ai rivoluzionari, ai mendicanti e agli emarginati ai margini della società. Avrebbe scoperto molte menti raffinate e spiriti sensibili in questi gruppi, ma nessuno dotato di saggezza alternativa provata e profonda a cui attingere. Qualcuno potrebbe dargli un libro di Thoreau o Muir, ma i loro scritti non gli offrirebbero un'analisi soddisfacente su invecchiamento, malattia e morte, né consigli su come superarli. E poiché non c'è quasi nessuna rete di sicurezza per le persone ai margini, si ritroverebbe a impiegare una quantità eccessiva della sua energia a lottare per la sopravvivenza, con poco tempo o energia rimaste per trovare la propria soluzione al problema di samvega. Sarebbe finito per scomparire, la sua Buddità abortita, forse nella regione del canyon dello Utah, forse in una foresta dello Yukon, senza lasciare traccia. Fortunatamente per noi, tuttavia, il principe è nato in una società che ha fornito sostegno e rispetto per i suoi emarginati. Questo era ciò che gli diede l'opportunità di trovare una soluzione al problema del samvega che rendesse giustizia alle verità del suo cuore. Il primo passo in quella ricerca di una soluzione è simbolizzato nella storia di Siddhartha dalla reazione del principe alla quarta persona che vide durante i suoi viaggi fuori dal palazzo: l'asceta errante della foresta. L'emozione che ha provato a questo punto è chiamata "pasada", un altro complesso insieme di sentimenti solitamente tradotti come "chiarezza e serena fiducia". È ciò che impedisce a Samvega di trasformarsi in disperazione. Nel caso del principe, ha acquisito un chiaro senso della sua condizione e della via d'uscita da essa, portando a qualcosa al di là dell'invecchiamento, della malattia e della morte, allo stesso tempo fiducioso che la strada avrebbe funzionato. Come i primi insegnamenti buddisti ammettono chiaramente, è che la difficile situazione del ciclo di nascita, invecchiamento e morte è privo di significato. Non cercano di negare questo fatto e quindi non ci chiedono di essere disonesti con noi stessi o di chiudere gli occhi davanti alla realtà. Come ha detto un insegnante, il riconoscimento buddista della realtà della sofferenza, è così importante che la sofferenza, è onorata come la prima nobile verità; è un dono, in quanto conferma la nostra esperienza più sensibile e diretta delle cose, un'esperienza che molte altre tradizioni cercano di negare. Da lì, i primi insegnamenti ci chiedono di diventare ancora più sensibili, al punto in cui vediamo che la vera causa della sofferenza non è là fuori, nella società o in qualche essere esterno, ma qui, nel desiderio presente in ogni mente individuale. Quindi confermano che c'è una fine alla sofferenza, una liberazione dal ciclo. Mostrano la via per quella liberazione, attraverso lo sviluppo di qualità nobili già latenti nella mente, al punto che respingono a un lato il desiderio e si aprono al "senza morte". Così la situazione riceve una soluzione pratica, una soluzione entro i poteri di ogni essere umano. È anche una soluzione che può essere esaminata e testata criticamente, un'indicazione di quanto il Buddha fosse fiducioso nella soluzione che ha trovato al problema di samvega. Questo è uno degli aspetti dell'autentico buddismo che più attrae le persone che sono stanche di sentirsi dire che dovrebbero cercare di negare le intuizioni che hanno ispirato il loro senso di samvega. In effetti, il Buddismo primitivo non solo è fiducioso di poter gestire i sentimenti di samvega, ma è anche una delle poche religioni che li coltiva attivamente in misura radicale. La sua soluzione ai problemi della vita richiede così tanto impegno che solo un samvega forte impedirà al buddista praticante di scivolare di nuovo nei suoi vecchi modi. Da qui la raccomandazione che tutti i buddisti, uomini e donne, laici o ordinati, riflettano quotidianamente sui fatti di invecchiamento, malattia, separazione e morte, per sviluppare sentimenti di samvega e sul potere delle proprie azioni, di coltivare samvega e lo porta avanti come pasada. Per le persone il cui senso del samvega è così forte da voler abbandonare qualsiasi legame sociale che impedisce loro di seguire il sentiero verso la fine della sofferenza, il Buddismo offre sia un corpo di insegnamenti di saggezza, a lungo provato da cui attingere, sia un rete di sicurezza: il sangha monastico, un'istituzione che consente loro di lasciare la società laica senza dover perdere tempo a preoccuparsi della sopravvivenza di base. Per coloro che non possono lasciare i loro legami sociali, l'insegnamento buddista offre un modo per vivere nel mondo senza essere sopraffatto dal mondo, seguendo una vita di generosità, virtù e meditazione per rafforzare le nobili qualità della mente che porterà a la fine della sofferenza. La relazione simbiotica progettata per questi due rami della "parisa", o comunità buddista, garantisce che ciascuno tragga beneficio dalla relazione con l'altro. Il sostegno dei laici garantisce che i monaci non avranno bisogno di essere eccessivamente preoccupati per cibo, vestiario e alloggio; la gratitudine che i monaci inevitabilmente provano per la generosità offerta gratuitamente dai laici aiuta a impedire che si trasformino in disadattati e misantropi. Allo stesso tempo, il contatto con i monaci aiuta i laici a promuovere la giusta prospettiva sulla vita che nutre l'energia di samvega e pasada di cui hanno bisogno per evitare di diventare ottusi e intorpiditi dalla propaganda materialistica dell'economia. Quindi l'atteggiamento buddista nei confronti della vita coltiva il samvega, una chiara accettazione dell'assenza di significato del ciclo di nascita, invecchiamento e morte, e lo sviluppa in pasada: un percorso sicuro verso l'Immortale. Quel percorso include non solo una guida collaudata nel tempo, ma anche un'istituzione sociale che lo nutre e lo alimenta. Queste sono tutte cose di cui la nostra società ha un disperato bisogno. È un peccato che, nei nostri attuali sforzi per integrare il Buddismo, siano aspetti della tradizione buddista solitamente ignorati. Continuiamo a dimenticare che una fonte della forza del Buddismo è la sua capacità di tenere un piede fuori dalla corrente principale, e che la metafora tradizionale per la pratica, è la zattera che attraversa il torrente fino alla riva più sicura. La mia speranza è che inizieremo a richiamare alla mente queste cose e a prenderle a cuore, così che nella nostra spinta a trovare un Buddismo che vende e attrae, non finiamo per venderci noi stessi. Tradotto dalla pagina: https://www.accesstoinsight.org/lib/authors/thanissaro/affirming.html?fbclid=IwAR3yr9Esepv_Klra1puACD2nt04X2sGS3G9flwFcc38nqbmMQEwJoYjQhc8 La domanda dalla quale trae origine tutta la nostra civilizzazione (Oriente o Occidente) é:”unde malo?”
Noi meditiamo per questo. Cerchiamo infaticabilmente la fonte dalla quale sorge la sofferenza nostra e degli altri. Ci facciamo silenti, immobili, ascoltiamo i pensieri e sentiamo le emozioni. Come fossimo segugi, seguiamo le loro orme, per stanare la sofferenza. Quelle orme formano un sentiero nascosto, impervio, in cui ogni passo é segnato dalla rettitudine. La rettitudine in questo caso é da intendersi anche in senso morale, ma sopratutto “tecnico”, come onestá, franchezza con quanto appreso. Questo sentiero é noto come “Il Nobile sentiero della via mediana”. Il sentiero é mediano, perché conduce alla sofferenza, passa attraverso la sofferenza, non la nega e tantomeno la combatte, ma ci passa in mezzo, senza astio, equanimamente, standoci in compagnia, standoci seduto davanti, con un cuore in agio, con coraggio appunto. Non può esserci nel cuore del meditante, l’ipocrisia, nel senso che egli deve essere capace di accettare le aporie, le incongruenze della sua condizione mondana. Deve avere il coraggio di vedersi rotto, non coerente, articolato, complesso, inconciliabile con i suoi ideali e desideri. Tutto questo finalmente permette al cuore di farsi umile e piccolo, per potersi liberare dalle strutture interiori che definiscono e sorreggono l’Io e il suo senso di potenza e volontà. Potrá ammettere finalmente, che il mare non può essere svuotato a cucchiaiate, a palate o altro mezzo mosso dalla volontá, fosse anche quella di tutti gli uomini del mondo insieme. A poco a poco al chiedersi come poter svuotare il mare, finalmente ci si può domandare, perché lo si vuole svuotare? Di fronte a tutto questo abbandono del senso e della volontà, emerge il silenzio. La meditazione é il lento esaurirsi delle condizioni che sostanziano di senso il sé. La meditazione é l’”olocausto” del sé e della sua volontà, del suo istinto alla sopravvivenza. Cessato il sopravvivere, emerge il vivere, dalla sopravvivenza alla vita autentica. É per questo che essa avviene in contesti, con simboli, modi e rituali religiosi. Una meditazione diversamente non sarebbe buddhista, risvegliante, bensì un “divertisement”, una distrazione dal turbinio della vita, non importa quali siano le intenzioni buone che la alimentano. Tradizionalmente, la somma rinuncia dell’addestramento, é quella dell’Io e del mio, del narcisismo morale, intellettuale e spirituale. Questa rinuncia é scenograficamente rappresentata dalla meditazione assisa. Questa catarsi profonda, libera il cuore e la mente dalle visioni errate, non rette, ovvero disoneste e ipocrite, manipolative, captive che vedono la realtà come qualcosa da modificare, variare secondo le necessità dell’ego. Essa rende possibile un’esistenza non condizionata, quindi libera dalla sofferenza che ne deriva. Questa possibilità é il Nibbana. Il senso profondo della pratica é risvegliarsi a questa possibilità intrinseca alla condizione umana, é risvegliarsi all’umanità, é la nostra umanizzazione, é il compimento della nostra nascita. In questo senso si é figli del Buddha, praticanti buddhisti, la meditazione é buddhista: tutte queste cose hanno come orizzonte e motivazione, realizzare il risveglio, il Buddha, seguendo le orme, gli insegnamenti e le indicazioni dei “Nobili esseri”, i risvegliati. Phra Suddhidhammaransi Gambhiramedhacarya (1907–1961), comunemente noto come Ajahn Lee Dhammadharo, era insegnante di meditazione nella Tradizione della foresta thailandese dell'ordine buddista Theravada di Dhammayuttika Nikaya. Era nato nella provincia di Ubon Ratchathani nella regione dell'Isan ed era un discepolo di Acjahn Mun Bhuridatta. Ajahn Lee è considerato uno dei grandi maestri di meditazione della Tradizione della foresta thailandese del XX secolo. Tra i monaci della foresta, aveva una completa conoscenza sugli insegnamenti di meditazione e compose la mappa più dettagliata dei jhana. Fu uno dei primi insegnanti a portare gli insegnamenti della Tradizione della foresta nel contesto più ampio della società tailandese. Non ha mai parlato dei suoi conseguimenti meditativi, tuttavia è stato ampiamente discusso tra i suoi studenti se fosse pienamente realizzato. Ajahn Lee ha iniziato a frequentare la scuola all'età di dodici anni, e ha lasciato la scuola all'età di diciassette anni. In quel momento, era preoccupato di guadagnare denaro a sufficienza per realizzare i suoi sogni e sposarsi a 30 anni. Dopo essersi ordinato, riferì di non essere soddisfatto del comportamento dei monaci che lo circondavano. I monaci "giocavano a scacchi, organizzavano combattimenti di galli e persino la sera mangiavano cibo". Dopo aver incontrato Ajahn Mun, Ajahn Lee si riordinò nella tradizione Thammayut, e vagò per le foreste come un eremita, come monaco che osserva il dhutanga. Viaggiò fino in Birmania, Cambogia e India. Dopo le piogge monsoniche del 1927, Ajahn Lee tornò al villaggio dove era nato (nell'attuale distretto di Amnat). Mentre stava in un santuario degli spiriti in un villaggio vicino, suo padre scoprì dove fosse e lo raggiunse. Quando arrivò a destinazione, si stabilì nel cimitero del villaggio, dove gli abitanti del villaggio si rifiutavano di abitare vicino per paura dei fantasmi. Ajahn Lee rimase qui per diverse settimane, dando sermoni a persone che venivano da altri villaggi. Ajahn Lee convinse la gente del villaggio a rifugiarsi nei Tre gioielli. L'intento di Ajahn Lee, era di mettere fine negli abitanti del villaggio la paura degli spiriti. Ciò rese alcuni abitanti del villaggio spaventati e turbati, e si opposero al fatto che lui fosse lì. Quando un ufficiale di distretto rimase un giorno nel villaggio, si schierò con l'intento di Ajahn Lee per liberare l'area della devozione degli spiriti e rendere la pratica buddista ortodossa. Che tutti i meriti di quanto è stato fatto, siano condivisi con tutti gli amici e le amiche nel Dhamma. Possano tutti gli esseri essere felici. Possano tutti gli esseri essere liberi dalla sofferenza. Possano tutti gli esseri essere liberi dall'ignoranza. Ringraziamo l'amico Andrea T. Per il lavoro di traduzione. Prefazione In questo testo Achaan Lee ci chiarisce, con un linguaggio chiaro e diretto, aspetti importanti della conoscenza buddhista della mente e dei suoi processi. Ci parla della brama e dei suoi processi di condizionamento dell’esistenza, non soltanto in senso negativo ma anche positivo. Quello che rende qui l’insegnamento di Achaan Lee particolare è il fatto che esso rompe qualunque schema dualistico e rigido, sin dall’incipit del discorso. Egli parla degli inquinanti non come solo un limite da risolvere ma come alleati del cammino. Achaan Lee dà al lettore delle suggestioni quasi tantriche con il suo insegnamento e approccio, quando parla dell’abilità di trasformare il negativo in positivo, come tratto peculiare della “persona eccellente”, il grado più alto in una scala a tre gradini: buono, eccellente ed eccezionale. Nela parte centrale del discorso Achaan Lee offre una magistrale spiegazione sugli inquinanti mentali, usando la metafora familiare, ne dà una descrizione gerarchica e connesse da una relazione di causalità. Al vertice e origine, pone avijja, l'ignoranza, la madre. I tre veleni di avidità, avversione e illusione, i suoi figli, che determinano i tre skandha,i fattori mentali, distinguendoli nei tre classici gruppi di: meritori, demeritori e neutri. I nipoti di avijja, sono in fine le tre forme di desiderio: kamma-tanha, il desiderio sensuale, bhava-tanha, il desisderio di esistere e vibhava-tanha, il desiderio di non esistere. Nello sviluppo dei suoi argomenti, utilizza immagini e metafore tratte dalla vita quotidiana, nella forma di parobole, come nel caso in cui spiega come l'avidità, l'avversione e l'illusione causano e generano i fattori mentali poritivi, negativi e neutri, e utilizzando lo schema interpretativo classico del kamma, ne descrive gli esiti psicologici. Quando invece approfondisce avijja, l'ignoranza il linguaggio torna tecnico. Affrontare l'ignoranza è spiegato come un processo di svelamento indotto dalla vipassana, attraverso la contemplazione dei canonici Quattro fondamenti della presenza mentale. Qui Achaan Lee si preoccupa di spiegarne dettagliattamente lo svolgimento per ognuno dei quattro oggetti. Il discorso si conclude sapientemente con la tesi iniziale, ma arricchita dall'esposizione dei tre tipi di persone. Le persone eccellenti sono coloro i quali, avendo trascesa l'ignoranza fondamentale circa la natura di avijja, sono capaci di apprendere da tutto quanto la vita offra loro di sperimentare, al di là della loro apparente natura. Il saggio non ha al mondo nemici. I demoni perturbatori : Kilesa Mara
E' la natura del mondo che nulla sia del tutto negativo. Tutto deve avere almeno qualcosa di buono. Lo stesso vale per le varie forme di Mara, o i demoni tentatori, che ostacolano la nostra pratica. Non è il caso che siano sempre solo un ostacolo. A volte si trasformano in nostri amici e compagni; a volte nei nostri aiutanti e sostenitori; altre volte nei nostri schiavi, aiutandoci e prendendoci cura di noi stessi. Ecco perché, se sei un tipo intransigente, devi percorrere una via di mezzo. Da un lato, devi concentrarti sul loro aspetto negativo. Dall'altro, devi concentrarti sul loro aspetto positivo. I loro lati positivi e negativi sono realtà che esistono insieme. Quanto a noi, dobbiamo prendere una posizione nel mezzo, esaminando le cose in modo da non agire con malizia o con pregiudizio. Una volta che vediamo il lato positivo di queste cose, possiamo familiarizzarci con esse. Possiamo entrarci in intimità. Quando vi entriamo in familiarità ed intimità, sviluppiamo un senso di parentela con essi. Come disse il Buddha, vissasa parama ñati: la familiarità è la più alta forma di parentela. I nostri nemici, quando familiarizziamo con loro, possono diventare nostri amici. I nostri compagni. I nostri servi. I nostri schiavi. Quando possiamo guardare le cose in questo modo, entrambe le parti ne traggono beneficio. Ne beneficiamo sia noi che i nostri demoni di Mara. Al tempo del Buddha, ad esempio, il Buddha conobbe così bene Mara che alla fine si convertì e si sentì favorevolmente incline al bene e alle pratiche che il Buddha aveva sviluppato. Quando Mara non ebbe più potere sul Buddha, rese omaggio al Buddha e si ritrovò trasportato in cielo. Non è tutto. Divenne un bodhisattva. In futuro otterrà anche il Risveglio come un Buddha completamente auto-risvegliato. Quindi ne trassero beneficio sia loro sia il Buddha. Questa è la natura delle persone che hanno discernimento: possono prendere cose cattive e trasformarle in cose buone. Quanto a noi, restiamo ancora sotto il dominio di Mara di vario genere. Questi Mara intimidatori sono chiamati Kilesa-Mara, i demoni della contaminazione. I più grandi, quelli davvero famigerati, sono l'avidità, l'avversione e l'illusione. Questi sono quelli famosi. Quanto a quelli che rimangono più sullo sfondo, dietro le quinte, vi sono: kama-tanha, brama sensuale, che lottano per ottenere le cose in modo che reca offesa al Dhamma; bhava-tanha, ardente desiderio che le cose siano in questo modo o in quello; e vibhava-tanha, desiderio che le cose non accadano. Ad esempio, una volta che abbiamo guadagnato ricchezza, non vogliamo perderla; una volta ottenuto lo status, non vogliamo che nessuno cancelli il potere che abbiamo sugli altri. Questo è vibhava-tanha. Queste tre forme di brama sono anch’esse demoni della contaminazione, ma non sono molto conosciute. Solo una volta di tanto in tanto ne senti qualcuno menzionare i loro nomi. Per quanto riguarda l'avidità, l'avversione e l’illusione, sono molto grandi, molto potenti, molto noti. La madre di tutti questi Mara è l'ignoranza (avijja). Tutto viene dall'ignoranza. Il bene viene dall'ignoranza. Il male viene dall'ignoranza. Per chiamare le cose con i loro nomi, l'ignoranza è la condizione necessaria per le costruzioni (sankhara) e fabbricazioni, e quando si presentano, si presentano in tre tipi:
Queste formazioni sono anch’ esse demoni delle contaminazioni. Sono i figli di Mara, ma raramente mostrano i loro volti in pubblico. Sono come i bambini della nobiltà, i bambini nel palazzo reale. Quasi mai mostrano i loro volti all'esterno, quindi pochissime persone conoscono i loro nomi, pochissime persone hanno visto i loro volti. A meno che non si sviluppi la mente e la concentrazione, non vedrete queste bellezze. Se sviluppate concentrazione, potete scrutare dentro, usando il vostro discernimento per separare i veli, e poi vedrete questi figli di Mara. La madre di Mara, l'ignoranza, giace ancora più in profondità. L'ignoranza significa non conoscere la propria mente, confondere il proprio pensiero con la propria mente; avere una conoscenza confusa della vostra mente; pensando che i vostri pensieri sul passato o sul futuro siano la mente; pensare che il corpo sia la mente o la mente sia il corpo; che quel sentimento sia la mente o che la mente stia provando quel sentimento; che le qualità mentali siano la mente o che la mente sia le qualità mentali; che la mente sia il sé o il sé sia la mente; non riuscire a separare queste cose dal “te” stesso, rimanendo impigliato: si chiama ignoranza. In breve, l'ignoranza significa farsi catturare dal presente. Tutte le cose che ho menzionato finora sono chiamate demoni delle contaminazioni. Ci disturbano continuamente, ci ostacolano continuamente, motivo per cui vengono chiamati i demoni della contaminazione. Come agiscono i demoni? Quando diventate davvero avidi, ad esempio, vi impediscono di essere generosi e fare donazioni. Volete semplicemente ottenere e non volete dare. Ecco come l'avidità è un demone. Quando diventiamo possessivi delle cose, tenendocele strette, e qualcuno distrugge ciò a cui ci stiamo aggrappando, ci arrabbiamo e ci sentiamo maltrattati. Questo mette la nostra mente in subbuglio e si agita tutto. Ecco come l'avidità è un demone. Lo stesso vale per la rabbia. Una volta che si presenta, non v'importa niente di niente. Vedete le altre persone come nient'altro che formiche rosse o nere: tutto ciò che dovete fare è calpestarle e hanno finito di esistere. Il potere esplosivo della rabbia è più violento di ogni altra cosa. Che voi siate davvero in grado di meritarvi una cosa, non vi interessa. Siete sfacciati e insensati. Ma se qualcuno arriva in quel momento e cerca di convincervi ad agire in modo abile, non volete sentir nulla di ciò che hanno da dire. La rabbia deve proseguire fino a quando non si esaurisce da sola. Ecco perché si chiama demone, perché non puoi fare nulla di buono mentre sei sotto il suo potere. L'illusione è anche peggio. L’illusione penetra in voi, come il sangue penetra in ogni parte del vostro corpo. Quando facciamo il male, siamo illusi. Quando facciamo del bene, siamo ancora illusi. Anche se siamo ben istruiti nel Dhamma, non possiamo ancora sfuggire al potere dell'illusione. Non importa chi siamo, ci simette subito alle calcagna. Potremmo voler offrire dei meriti, ma quando siamo illusi non sappiamo cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Vogliamo semplicemente il merito. Osserviamo i precetti perché vogliamo essere buoni, ma non sappiamo quale sia la vera virtù. È lo stesso quando pratichiamo la concentrazione. Vogliamo ottenere risultati, ma non possiamo distinguere la giusta concentrazione da quella sbagliata. Continuiamo semplicemente a desiderare. Questo si chiama illusione, in quanto la nostra conoscenza non è in linea con la verità. Non è che non sappiamo nulla. Lo sappiamo, ma ciò che sappiamo si allontana dalla verità. Siamo come una persona che ha perso la sua strada: può ancora andare avanti; è solo che non è sulla strada giusta. Supponiamo, ad esempio, che vogliamo andare a Bangkok ma ci confondiamo sulla strada e iniziamo a dirigerci verso Bang Puu. Siamo fuori strada per quanto riguarda Bangkok, ma siamo sulla buona strada per Bang Puu, e possiamo continuare. Non significa che quando sei sulla strada sbagliata non puoi camminare. Puoi, ma è la strada sbagliata per quanto riguarda la destinazione che desideri. Finirai semplicemente deluso. Questo è il motivo per cui l'illusione si chiama demone. Il secondo livello di demoni sono le forme di brama. Esistono tre forme di brama, ma che si riducono a due tipi. Traduciamo la brama ardente come "desiderio", e il desiderio è di due tipi. Uno è il desiderio mescolato con la lussuria, per le cose mondane. Il secondo non ha lussuria. È semplicemente un senso di inclinazione, affetto, simpatia per gli oggetti. Ad esempio, proviamo simpatia per alcuni luoghi. Vediamo determinati oggetti materiali e ci piacciono per il loro aspetto, quindi li cerchiamo; in altre parole, vogliamo ottenerli. Anche questo è un tipo di brama. Lo stesso vale per i vari suoni che ci piacciono. Fatichiamo per entrarne in possesso. Il nostro desiderio ci tira, ci trascina; o che si ottenga o meno ciò che vogliamo, dobbiamo continuare a correre. Se otteniamo ciò che vogliamo, almeno abbiamo qualcosa da mostrare per i nostri sforzi. Se non lo facciamo, è una perdita di tempo ed energia e soffriamo. Questo tipo di desiderio è anche chiamato brama: brama di oggetti, cose, suoni, odori, sapori, sensazioni tattili: cose che ci piacciono. Questo è il desiderio combinato non con la lussuria, ma con l'avidità. Così la brama ha questi due sapori, distillati da kama-tanha, bhava-tanha e vibhava-tanha: desiderio combinato con lussuria e desiderio libero da lussuria. Anche questi sono demoni delle contaminazioni. Ciascuno di essi impedisce alla mente di inclinarsi verso la giusta concentrazione. Questo è il motivo per cui il desiderio, chanda, è classificato come un ostacolo. Il desiderio inteso come un ostacolo, comprende l'inclinazione, un senso di gradevolezza, senza essere mescolata con alcuna lussuria. C'è un altro tipo di chanda, chiamato chanda-raga, o desiderio-e-passione - che è più pesante di chanda come ostacolo. Chanda come ostacolo è leggero. Chanda-raga è un nemico dei precetti. Chanda come ostacolo è nemico della concentrazione. Questo è il motivo per cui il desiderio in entrambi i sensi della parola è classificato come un demone, un demone delle contaminazioni. Questo è il secondo livello. Il livello successivo di demoni sono le forme di formazioni o volizioni mentali. Ad esempio, le formazioni meritorie: i pensieri della mente che propendono o danno origine al merito, al bene. Supponiamo ora che quei pensieri non abbiano soddisfazione. La mente allora diviene acida. Come il re Asoka, che governava il subcontinente indiano, governava in due modi. Uno era attraverso la sua bontà come persona. I suoi sudditi lo rispettavano, lo onoravano e quindi gli obbedivano. L'altro modo era attraverso il suo potere militare e la sua forza. Questo era il motivo per cui c'era legge e ordine nel suo regno. Nell'ambito della religione, ha dato un enorme sostegno e incoraggiamento, costruendo una grande quantità di opere meritorie, così tanto che gli si rivolse contro. Diede continue donazioni ai bhikkhu del sangha, fino a quando un giorno, verso la fine della sua vita, decise che voleva usare del denaro per acquistare donazioni come forma di omaggio al Buddha, al Dhamma e al Sangha. Dopo aver formulato questa intenzione, ma prima che avesse avuto l'opportunità di spendere quanto voleva, si ammalò. Quindi voleva sbrigarsi e finire di fare i meriti in linea con i suoi piani. Mandò uno dei suoi funzionari a prelevare più denaro dal tesoro, che conteneva sia fondi governativi che fondi privati del re. Quando il funzionario arrivò al tesoro, il tesoriere disse che non avrebbe consegnato il denaro, in quanto doveva andare solo al governo. Quindi il funzionario tornò per informare Re Asoka, che si arrabbiò. "Questi sono i miei fondi", pensò. Voleva usare i fondi come una forma di omaggio al Buddha, al Dhamma e al Sangha, ma quando non riuscì a farlo, la sua mente si inasprì. Accadde che morì, con la mente turbata. Ora, poiché morì mentre era arrabbiato con il suo tesoriere per non avergli permesso di offrire meriti, il risultato fu che nacque come un serpente gigantesco, un enorme pitone, che strisciava avanti e indietro attorno al tesoro reale. Lì dovette rimanere, fissato sui suoi averi, per molti giorni, il che gli impediva di godere dei risultati del bene che aveva fatto. Quando era vivo, aveva fatto del bene in molti modi: costruendo templi, costruendo pagode, piantando un gran numero di alberi di Bodhi, facendo enormi donazioni al Sangha, osservando i precetti, ascoltando il Dhamma. Quando morì, avrebbe dovuto rinascere come un deva maschio o femmina, ma invece andandosene in quel modo, venne alla luce come un serpente. Questo è un esempio di come buone intenzioni, intenzioni meritorie, quando non sono soddisfatte, possono portare alla contaminazione e alla rinascita come animali comuni. Ecco perché i pensieri di elargire meriti, anche se meritori, possono trasformarsi in demoni. Lo stesso è ancora più vero con le formazioni demeritorie, i pensieri di fare il male. Basta pensare al male per far sì che sia sufficiente ad ostacolare la nostra bontà. Quando pensieri di questo tipo sorgono nella mente, anche se non abbiamo ancora agito, anche se non abbiamo ancora parlato sotto la loro influenza, il semplice fatto di avere una cattiva intenzione nella mente è sufficiente per impedirci di raggiungere i nobili sentieri e le realizzazioni. Un esempio di questo è la storia di due abitanti di un villaggio, due amici, durante un sabato di osservanza buddista. Al mattino presto, le persone nel villaggio sentirono il suono della campana e del gong nel tempio locale, quindi si alzarono prima dell'alba e si prepararono per andare a dare da mangiare e ascoltare un sermone al tempio. Uno degli amici pensò tra sé e sé: "Se vado a prender meriti al tempio, quando torno a casa non avrò niente da mangiare. Meglio che vada a pescare". Quindi cucinò del riso e preparò il cibo per l'altro amico da portare al tempio. Per quanto riguarda l'amico che andava al tempio: mentre metteva del cibo nelle ciotole dei monaci, prendeva i precetti e ascoltava il sermone, tutto ciò che riusciva a pensare erano i cattivi pensieri del tipo: "Il mio amico riuscirà a catturare qualche pesce per far da mangiare questa sera, mi chiedo ". Mentre ci pensava, sviluppò un forte desiderio di mangiare pesce al curry, fatto con il pesce che il suo amico stava uccidendo nel torrente. È tutto ciò a cui riusciva a pensare mentre metteva del cibo nelle ciotole dei monaci e ascoltava il sermone. Non stava pensando all'uccisione dell’animale. Pensò semplicemente: "Se il mio amico pesca del pesce, potrò mangiare". Per quanto riguarda l'amico che stava pescando, non riusciva a pensare a altro, "Mi chiedo se il mio amico abbia messo del cibo nelle ciotole dei monaci ... Ormai, probabilmente ha preso i precetti ... Ormai probabilmente starà ascoltando il sermone e ottenendo un sacco di meriti". Questo è tutto ciò a cui poteva pensare. Ora, grazie al potere meritorio delle sue intenzioni, nessun pesce fu catturato dalla sua rete. Ogni volta che sentiva il colpo di gong al tempio, abbassava la rete, alzava le mani e diceva: "Sadhu!", tutto il giorno fino a quando l'oscurità scese. Poiché i suoi pensieri erano così persi nel fare il bene, i suoi sforzi per compiere il male non ci riuscirono. Per quanto riguarda l'amico che andava a ricever meriti al tempio, i suoi pensieri erano persi nell'idea di mangiare pesce con il suo amico, così alla fine non ottenne quasi alcun merito. I meriti che ricevette non valsero tutto il tempo e gli sforzi che erano stati fatti per sistemare il cibo per i monaci, prendere i precetti e ascoltare il sermone con le mani giunte in segno di rispetto. In altre parole, il suo stato d'animo annullò la sua bontà, quindi non riuscì a trovare una corrispettivo per il suo amico che era fuori a fare il male senza volerlo davvero. Quindi il suo stato d'animo si trasformò in un demone e lo danneggiò in due modi: il primo era che voleva mangiare pesce ma non aveva avuto un solo boccone. Il secondo era che, anche se aveva guadagnato un po’ di merito dalle donazioni che aveva fatto ai monaci, era troppo poco. Ha semplicemente eseguito il gesto di mettere il cibo nelle ciotole dei monaci, prendendo i precetti, ascoltando il sermone, ma la sua mente era concentrata sul mangiare pesce al curry con il suo amico. Quindi non ha ottenuto nessuno dei buoni risultati che avrebbe voluto ottenere dalle sue azioni. Questo è il motivo per cui si dice che i pensieri malvagi annullano la nostra bontà. Anche se stiamo facendo del bene, pensieri di questo tipo feriscono la nostra bontà, come una palma o un albero di cocco con la corona tagliata. O un banano che ha dato i suoi frutti: non sarà più in grado di crescere, di portare fiori o di produrre altri frutti. Le persone che pensano in modo malvagio, anche se fanno del bene, non incontrano alcun progresso nella vita. Non incontrano altro che fallimento. Questo si chiama formazione demeritorie, un altro tipo di demone che ci impedisce di riuscire a dare origine al bene. Il terzo tipo di formazione mentale è il pensiero neutro, che non è ancora buono o cattivo. Questo tipo di pensiero può anche essere un demone delle contaminazioni. Supponiamo, ad esempio, che intendiamo lavorare nella nostra fattoria. "Non abbiamo tempo di andare al monastero", ci diciamo: "Non abbiamo ancora abbastanza da mangiare". O se abbiamo intenzione di vendere dei prodotti: "Se andiamo al monastero, non avremo il tempo di ottenere un buon incasso". Oppure passiamo il nostro tempo a pensare ad alcuni importanti affari che dobbiamo fare, che dovremmo fare questo e dire quello. Oppure pensiamo di uscire a fare un giro e rilassarci un po’. Quando pensiamo in questo modo, ci vorrà ancora del tempo per sviluppare la bontà dentro di noi. Continuiamo a rimandare. In quale modo? Quando siamo bambini, ci diciamo che possiamo aspettare fino a quando non saremo più grandi. Non moriremo presto, quindi dovremmo dedicare del tempo a studiare. Quando diventiamo giovani adulti, ci diciamo che possiamo aspettare fino a quando non ci sposeremo. Una volta che ci sposiamo e ci stabiliamo nella nostra carriera, ci diciamo di aspettare che i nostri figli crescano e si sposino. Andare al monastero può aspettare fino a quando non saremo invecchiati un po’. Continuiamo a rimandare e ci trasformiamo in simpatici maialini che Mara può deglutire facilmente senza nemmeno rendercene conto. Alla fine, se sopravvivremo davvero fino alla vecchiaia, i nostri figli si preoccuperanno e proveranno a dissuaderci dall'andare. "Mamma, non andare al monastero. Sei vecchia. Soffrirai ogni sorta di difficoltà." E noi ci crediamo. "Se ti senti svenire o ti ammali, sarà difficile per te." I tuoi occhi diventano tali da non poter vedere, le orecchie in modo tale da non poter sentire. Non puoi ascoltare i sermoni, non puoi sentire quando danno i precetti. I tuoi occhi, le tue orecchie, ogni modo per fare del bene ti sarà impedito. Questo è ciò che accade alle persone coinvolte nel loro lavoro, preoccupate di come mangiano, dormono e vivono; preoccupati per la ricchezza e la povertà, al punto da non poter sviluppare alcuna abilità e vederne attraverso. Questi modi di pensare sono un tipo di costruzione mentale che ci prende in giro, ci fa inciampare, ci tira indietro, ci lega. Ecco perché contano come un tipo di Mara, come demoni delle contaminazioni. Il demone delle contaminazioni al quarto livello è l'ignoranza, non conoscere le cose. Non conosciamo la sofferenza e l'insoddisfazione; non conosciamo la causa della sofferenza; non siamo a conoscenza della cessazione della sofferenza o del percorso di pratica che porta alla cessazione della sofferenza. La nostra non conoscenza di queste Quattro Nobili Verità è un aspetto dell'ignoranza. Un altro aspetto è il non sapere quali affari sono passati, quali sono futuri e quali sono presenti. Questi tre, più le Quattro Nobili Verità, sommando fanno sette. E poi non c'è conoscenza dell'ignoranza stessa, che fa otto. Queste forme di nescienza, sono chiamate avijja o ignoranza. Ciò a cui tutto si riduce è il non conoscere il sentiero, la via. Ad esempio, quando pratichiamo i Quattro fondamenti della pratica: kayanupassana, ci concentriamo sul corpo in sé e per sé, ma non capiamo il corpo. Pensiamo che il corpo sia la mente o la mente sia il corpo. Questa è ignoranza. È buio. Ottunde la conoscenza del corpo e della mente, in modo che pensiamo che siano la stessa cosa. Non possiamo separare il corpo dalla mente o la mente dal corpo. Questo si chiama non conoscere il nostro sentiero. Vedananupassana: ci concentriamo i sentimenti in loro e per loro, ma non conosciamo veramente i sentimenti. "Sentimento" qui significa l'atto di assaporare le sensazioni, che a volte sono piacevoli, a volte dolorose, a volte né piacevoli né dolorose. Pensiamo che il piacere sia la stessa cosa che la nostra stessa mente, o che il nostro Io sia ciò che ha piacere. O pensiamo che il dolore sia la stessa cosa che il nostro sé, o che il nostro Io sia ciò che ha dolore. Non possiamo separare il piacere e il dolore dalla mente, quindi si intrecciano strettamente. Non possiamo separarli, non possiamo dire cosa sia cosa. Questo si chiama ignoranza, non conoscere il sentiero. Cittanupassana: ci concentriamo sulla mente in sé e per sé, ma non conosciamo veramente la mente. Qual è la mente? In realtà, ci sono due aspetti nella mente. C'è la coscienza mentale, e poi c'è la mente stessa. Pensiamo che la coscienza sia la mente, che la mente sia consapevolezza. In realtà, la coscienza è ciò che accade. Diciamo che vediamo uno spettacolo a Bangkok. Cakkhu-viññana, la coscienza visiva è ciò che va a vedere, ma la mente non va. L'atto di andare, è ciò che si chiama coscienza, ma non ha sostanza. Sota-viññana: A volte ricordiamo i suoni del passato. I pensieri dei suoni appaiono nella mente e ci concentriamo su di essi, in modo che possiamo ricordare ciò che questa o quella persona ha detto, quanto fosse bello...Ciò che abbiamo ricordato è sota-viññana, coscienza uditiva. Poi c'è la coscienza olfattiva. Siamo in grado di riconoscere con quali odori stiamo venendo in contatto. Possiamo ricordare quali odori c'erano e quali cose abbiamo annusato in passato. La funzione mentale che viene a sapere queste cose si chiama ghana-viññana. Poi c'è kaya-viññana, coscienza nel cospo (sensoriale). Siamo in grado di riconoscere l'aria calda dall'aria fredda. Possiamo riconoscere che "Questo tipo di fresco è il freddo dell'acqua; quel tipo di freddo è il freddo del vento; questo tipo di calore è il calore del fuoco; questo tipo di calore è il calore dell'aria calda; quel tipo di calore è il calore del sole". Possiamo riconoscere chiaramente queste cose. Potremmo persino scrivere un saggio su di loro. Conoscere queste cose si chiama kaya-viññana. Mano-viññana, coscienza dell'intelletto (intellettuale). Il nostro pensiero si rivolge a Bangkok, alla foresta, al deserto, a tutto il mondo. La nostra conoscenza di questi pensieri è mano-viññana, mentre la mente è ciò che rimane proprio qui nel presente. Non può andare da nessuna parte. La parte della mente che è la consapevolezza stessa non può andare da nessuna parte. Resta proprio qui. Esce solo fino alla pelle. C'è consapevolezza delle cose oltre la pelle, ma quella consapevolezza non è la mente. È coscienza. Non c'è sostanza per la coscienza, nessuna sostanza, proprio come l'aria. Quindi non dobbiamo impigliarvici. Possiamo separare la coscienza dalla mente, separare la mente dalla coscienza. La mente è come un fuoco; la coscienza, la luce del fuoco. La luce e il fuoco sono due cose diverse, anche se la luce esce dal fuoco. Quando non lo capiamo, si chiama ignoranza. Concepiamo la coscienza come la mente e la mente come coscienza. Quando abbiamo tutto confuso in questo modo, si chiama ignoranza. Dhammanupassana. Ci concentriamo sui dhamma in loro e per loro, cioè sulle qualità mentali che sorgono nella mente. Quando nella mente sorgono qualità poco abili, non sappiamo quanti danni possano causare. Questa è ignoranza. Per quanto riguarda le qualità abili: quali offrono solo piccoli benefici, quali danno benefici medi e quali danno benefici travolgenti, non lo sappiamo. Ciò significa che non conosciamo le qualità della mente. Quando non conosciamo le qualità della mente, non possiamo separare il bene dal male o il male dal bene, non possiamo separare la mente dalle sue qualità o le qualità dalla mente. Tutto è saldamente bloccato insieme in una massa grande e spessa in modo che non possiamo separarli. Questo si chiama ignoranza. L'ignoranza è un Mara, un demone, un demone che si frappone, impedendoci di raggiungere il bene più alto, cioè il Nibbana. Tutti e quattro questi tipi di contaminazione sono chiamati Mara o demoni delle contaminazioni. La madre di Mara è l’ignoranza. I figli di Mara sono le costruzioni mentali; i nipoti di Mara sono le tre forme di brama; e i pronipoti di Mara sono avidità, avversione e illusione. A volte questi membri della famiglia Mara ci aiutano a sviluppare merito e abilità. A volte si alzano e si siedono sulla nostra testa, ci dominano e ci danno ordini. Supponiamo, ad esempio, che l'avidità diventi davvero forte. Afferriamo tutto ciò su cui possiamo mettere le mani, senza pensare a chi appartiene o se prenderlo sia giusto o sbagliato. Quando l'avidità diventa davvero forte, può spingerci a fare il male. Quando la rabbia diventa davvero forte, ci mette pressione sui nervi al punto da poter emettere una condanna a morte e commettere un omicidio. Lo stesso vale per l'illusione. Ognuna di queste cose è un nemico, che blocca la nostra bontà, ma ognuna può anche esserci di beneficio. Se abbiamo discernimento, l'avidità può aiutarci. La rabbia può aiutarci. L'illusione può aiutarci. Se abbiamo discernimento, la brama può aiutarci a motivare lo sviluppo del bene. Non guardare in basso. Siamo venuti qui per ascoltare un sermone. Chi ci ha convinto a venire? Brama, ecco chi. Quando le persone si ordinano come monaci e novizi, cosa li costringe a farlo? Desiderio, ecco cosa. Non dovremmo concentrarci solo sul suo lato negativo. Per quanto riguarda le fabbricazioni meritorie, se non ne avessimo nessuna, non saremmo in grado di sviluppare alcuna bontà. Chiunque sviluppi la bontà in qualche modo deve iniziare con l'intenzione di farlo. Anche l'ignoranza è buona. Quando sappiamo che abbiamo ignoranza, ci affrettiamo e troviamo un modo per superarla. L'ignoranza è ciò che ci porta fuori strada, ma alla fine l'ignoranza stessa è ciò che dovrà riportarci indietro. La conoscenza non ha mai portato nessuno a studiare. L'ignoranza è ciò che rende le persone desiderose di imparare. Quando le persone lo sanno già, perché dovrebbero voler guardare oltre? L’illusione è ciò che ci fa cercare la conoscenza, unendoci alla società, associandoci alle persone. La nostra conoscenza diventa sempre più ampia dal primo impulso nato nell'ignoranza. Quindi, quando si ha a che fare con i demoni delle contaminazioni, bisogna cercare sia i loro punti positivi che quelli negativi. Solo quando vedete entrambe le parti potete definirvi discernenti e saggi. Quando siete in grado di prendere cose cattive e renderle buone, è allora che siete davvero eccezionali. Se prendete cose buone e le rendete cattive, non va affatto bene. Anche quando prendete cose buone e ne fate altre buone, non è davvero speciale. Esistono tre livelli di bontà: buono, eccellente ed eccezionale. Una brava persona fa del bene. Una persona eccellente prende qualcosa di buono e lo rende migliore. È eccellente, ma non eccezionale. Una persona eccezionale prende cose cattive e le rende buone, prende cose buone e le rende eccellenti. Quindi questi sono i tre livelli di bontà: buono, eccellente ed eccezionale. Quindi oggi ho parlato dei demoni della contaminazione, dopo il discorso dell'altro giorno sui demoni degli aggregati (khandha-mara). Dovremmo tutti imparare a pensare, a considerare le cose, a meditare sulle cose, in modo da poter trovare la bontà da ogni parte, in ogni angolo che guardiamo. In questo modo, se guardiamo sotto di noi troveremo tesori. Se guardiamo sopra di noi troveremo tesori. Guardare sotto di noi significa guardare le cose che sono i nostri nemici. Potremo ottenere tesori da loro: bontà a un livello eccezionale. Quando guardiamo le cose che sono nostri amici, possiamo ottenere l'eccellenza da loro. Dovremmo cercare di sviluppare tutti e tre i livelli di bontà. Se abbiamo discernimento, possiamo ottenere tutti e tre i livelli di bontà dai demoni delle contaminazioni e dai demoni degli aggregati, e otterremo tutti e tre i benefici che ho menzionato. Per questo motivo dovremmo sviluppare le nostre facoltà mentali (indriya) fino a quando non saranno forti, capaci e mature, in modo che non temano alcun tipo di Mara. Una persona che ha studiato i serpenti può raccoglierli senza paura il loro veleno. Una persona che ha studiato le tigri può catturarle e non farsi mordere. Allo stesso modo, se abbiamo discernimento, possiamo catturare e domare i demoni delle contaminazioni in modo che ci supportino nell'essere eccezionali, fino ai sentieri (magga) e alle realizzazioni (phala) che conducono al nibbana. Chi non ha l'abilità o il discernimento verrà portato via dai demoni delle contaminazioni per essere torturato e ucciso. Quindi dovremmo usare il nostro più forte discernimento per considerare queste cose. Questo è ciò che ci condurrà ai nobili sentieri e alle loro realizzazioni. Quindi, quando abbiamo sentito questo, dovremmo considerare ciò che abbiamo ascoltato e prenderlo a cuore, portandolo dentro per vedere i modi in cui le cose sono effettivamente dentro di noi e dunque praticare di conseguenza, in linea con il modo della giusta pratica. Questo è quando possiamo essere a nostro agio. Le persone cattive ci aiuteranno. Le brave persone ci aiuteranno. Saremo liberi dal pericolo. I ladri saranno i nostri servi, aiutandoci nei nostri vari compiti. Le persone sagge ci aiuteranno nel nostro lavoro, quindi come possiamo fallire? Se guardiamo alle persone cattive, vengono e ci aiutano. Se guardiamo alle brave persone, vengono e ci aiutano. Se ci concentriamo sui Mara che sono i nostri nemici, si trasformeranno in nostri amici e compagni. Quando arriveremo a questo punto, non sapremo cosa sia un Mara, perché niente è un Mara in alcun modo. Tutto è neutro, la proprietà comune del mondo. Chiunque può vedere le cose in questo modo non ha più sofferenza, né più ostacoli. Tutto è luminoso, raggiante e facile. Se andrete avanti, non rimarrete bloccati. Se tornerete indietro non rimarrete impigliati. Potete andare agevolmente come una barca sull'acqua. Ecco perché si dice che questo tipo di persona sia sugato: qualcuno che va bene, che se ne è ben-andato. Quindi tutti noi che stiamo sviluppando le nostre perfezioni dovremmo praticare in questo modo. E ora che ho spiegato i demoni delle contaminazioni, finisco qui. Possa la memoria di Isa essere per noi, veicolo di bene, per il nostro beneficio e degli altri! Possa cosi Isa partecipare al bene, che in sua memoria verrà da noi compiuto! Come l'acqua piovana, caduta su una collina scorre a valle, cosi possa quanto è qui offerto andare a beneficio dei trapassati. Come i fiumi pieni d'acqua riempiono l'oceano, così possa quanto è qui offerto andare a beneficio dei trapassati. Sadhu, sadhu, sadhu. In questi giorni, la cristianità celebra la Settimana Santa, che ha il suo culmine nella celebrazione pasquale. È un tempo importante di riflessione, che cade in concomitanza del capodanno tradizionale del sudest asiatico, noto come “Festa dell’acqua”. Il riferimento all’acqua non è casuale. Notoriamente, questo elemento è un archetipo la cui simbologia rimanda all'acqua quale fonte della vita e veicolo di purificazione. Le sue qualità fisiche ci suggeriscono la transitorietà, il passaggio da una condizione ad un’altra.
Entrambe le ricorrenze, che cadono in un periodo di transizione tra stagioni diverse (dalla stasi dell’inverno alla vitalità della primavera, nei climi temperati; dalla stagione secca ai monsoni, in quelli tropicali), a livello spirituale e morale evocano un’opportunità, un tempo di trasformazione, di purificazione e di transizione in riferimento alla diade morte/nascita. La ciclicità della natura produce in noi delle forti suggestioni circa l’impermanenza di tutte le cose, e ci induce a riflettere sul tempo e su quelli che ci appaiono essere il loro inizio e la loro fine: la nascita e la morte. La nascita, in una percezione ciclica del tempo, è più precisamente definibile come “rinascita”; ma parlare di rinascita equivale a parlare della morte. La Prima Nobile Verità Nella tradizione buddhista, la riflessione su nascita e morte è centrale. Nascita e morte sono citate nella Prima Nobile Verità quali specificazioni di dukkha, la sofferenza esistenziale; una sofferenza, che cessa nel momento in cui viene “compresa”. Questa verità, per quanto palese per tutti gli esseri senzienti, senza distinzioni, è nello stesso tempo sfuggente: la coscienza costantemente la dimentica o la nasconde a sé. È solo con un grande acume e un costante addestramento che la coscienza può “risvegliarsi” e vivere alla luce di questa verità fondamentale. È per questo che la tetrade delle Nobili Verità inizia con la dichiarazione, solenne e lapidaria, che nella vita ci sono nascita e morte, legati inesorabilmente da una relazione di causalità. Abbiamo detto che questo “risvegliarsi” alla verità dell'esistenza della nascita/morte è possibile solo attraverso una disciplina, attraverso un lavoro, che vuole procurarci una gnosi, una conoscenza circa la verità della relazione tra la nascita e la morte; termini che, almeno in apparenza, condizionano il tempo vissuto, circoscrivendone e limitandone la durata. Il risveglio del Buddha è spiegato dalla tradizione come la piena comprensione della legge di causa-effetto, che regola il ciclico perpetuarsi della rinascita di tutti gli esseri senzienti, e la piena comprensione delle Sue stesse esistenze. La meditazione, sentiero percorso dal Buddha, può essere intesa come la porta d’accesso attraverso la quale possiamo comprendere, e vedere chiaramente, il processo che alimenta questo eterno movimento e, nello stesso tempo, attingere, attraverso ciò che viviamo e osserviamo, il Dhamma, la Verità senza tempo. L’osservazione della ciclicità del respiro è scelta come fondamento della pratica meditativa, anche perché essa ci induce a confrontarci con uno dei processi centrali della nostra esistenza, senza il quale niente sarebbe possibile. Tuttavia, a ben vedere questo centro è intrinsecamente “vuoto”; vuoto di una volontà o determinazione soggettiva: il respiro avanza e si consuma per una ragione che gli è propria, e che sembra non appartenerci. La meditazione, quindi, è un metodo rigoroso, che vuole indurci a cogliere la Verità a partire dall’osservazione di quelle realtà che si manifestano attraverso i nostri sensi, ma che costantemente neghiamo, ivi compresa la verità della morte. Una dose di “Dhammacotic” La stessa sensazione che si stia “esagerando”, o che si voglia “cavillare” su ciò che è lapalissiano, è in verità una strategia di fuga. La difficoltà che avvertiamo nel dire in maniera efficace ai bambini cosa siano la nascita e la morte, se non con improbabili metafore, evidenzia la nostra “ignoranza” rispetto a questi due fatti; una ignoranza, che condiziona il nostro esistere più di ogni altra cosa. La stessa pandemia di Covid-19 ci offre molto su cui riflettere. La quarantena è un volersi non contagiare con la morte, un voler chiudere fuori di noi ciò che non vogliamo. Il vaccino che cerchiamo è il vaccino contro la nostra mortalità. La mente vaga, chiusa nelle angustie degli spazi domestici, tra mille pensieri e fantasie, finanche a sognare nuove prospettive per una Terra e un’umanità nuove che possano sorgere a seguito di questa “espiazione” globale. Ma, non c’è nessuna colpa. È semplicemente quello che è sempre stato: nascere e morire! La morte non può essere una colpa, come la nascita non è un premio. Tutti gli insegnamenti dei venerabili, in questi giorni, ci invitano a vedere quello che abbiamo davanti, a realizzare il “vedere le cose come sono”; e cioè, ci invitano a guardare alla morte, alla sua evidenza, con coraggio e saggezza, senza divagare e perderci, facendo emergere quel coraggio e quella saggezza da quel “mettersi davanti alle cose”, alla Verità di quelle cose. Nel ricco “armamentario del meditante”, la tradizione ci consegna la riflessione sulla morte nella sua crudezza, presentata esattamente per quella che è. Proprio perché non riusciamo a vederla. È sintomatico il fatto che la proposta della Prima Nobile Verità ci venga dalla realtà stiamo vivendo attraverso la virulenza dell’epidemia, ma noi non la vediamo. Se abbiamo comunque provato a meditare, abbandonandoci al silenzio, senza altra guida che le nostre insicurezze, la nostra stessa pratica è probabilmente divenuta una dose di “Dhammacotic”, un semplice mezzo per calmarci, per ingentilirci, per poter stare meglio con le nostre paure, dimenticandoci che le paure non sono un problema da esorcizzare, ma un’opportunità per la nostra piena umanizzazione; una umanizzazione che deve necessariamente passare per l’accettazione della nostra natura mortale. La compassione, la gentilezza amorevole, l’equanimità, l’altruismo più autentici, tanto evocati, non possono che sorgere dalla chiara intuizione della nostra incertezza, della nostra paura della sofferenza e della nostra ignoranza; e dalla chiara intuizione che tutto questo, ora, è la condizione dell’intera umanità. Si tratta di una constatazione non intellettuale, ma che sorge dal “vedere” i contenuti dei pensieri nella propria mente, dal saggiare il sapore delle emozioni del proprio cuore e dal sentire gli spasmi del proprio corpo, senza alcuna sofisticazione o mediazione intellettuale. Non averne paura, offrirsi ad essi, offrirsi loro in pasto. Cogliere attraverso l’osservazione di noi stessi una verità che coinvolge tutti gli uomini e tutti gli esseri senzienti, che in quanto tali vivono la stessa condizione, ci apre alla “compassione” più autentica; una compassione capace di decondizionarci dagli attaccamenti. L'odio verso gli altri, il mancato rispetto delle restrizioni, è stato possibile perché, in quel momento, non vedevamo la verità e la realtà della nostra morte e, quindi, nemmeno di quella degli altri. “Il trasferimento dei meriti” Nella pratica quotidiana, sappiamo quanto sia importante essere presenti a se stessi e consapevoli delle cose che ci accadono. Tuttavia, sappiamo che c’è bisogno anche di altro per poter comprendere quanto stiamo osservando. Per quanto io possa vedere chiaramente le lettere, averle memorizzate e aver imparato a trascriverle, questo non mi permette di leggere e comprendere quanto vedo. Per sviluppare questa capacità è importante avere delle istruzioni e applicarsi con la pratica. La tradizione ci mette in guardia quando ci dice che il fine dell’addestramento è quello di renderci “liberi”. Il Nibbana, d’altra parte, non è uno scopo tra altri scopi possibili, ma è la “liberazione” dall’orizzonte dei fini particolari. Per comprendere questo paradosso è importante acquisire istruzioni ed insegnamenti e addestrarsi. A tal proposito abbiamo parlato delle riflessioni e delle formule tradizionali sui vari soggetti dell’addestramento sui quali occorre applicare la nostra attenzione, per sviluppare una “sensibilità” e indurre una predisposizione della mente e del cuore che possano procurarci profonde intuizioni. Ve ne sono diverse che trattano specificamente della vita e della morte. La tradizione, tuttavia, ci fornisce un’altra possibilità fondata su gesti e simbologie semplici, che si esprimono in un rito: “il trasferimento dei meriti” o “dedica dei meriti”. Questa pratica tradizionale può rappresentare un abile espediente per la nostra comprensione, se integrata in un percorso più ampio e completo. Tutti gli insegnamenti buddhisti hanno diversi livelli di profondità, in riferimento alla maturità di pratica e di vita del praticante stesso. Questa pratica non è da meno. Tuttavia, è bene sottolineare che, qualsiasi sia questo livello, essa pone di fronte al meditante la verità dell’ineluttabilità della morte, propria e di tutti gli esseri senzienti. Il rito, in genere, ha per soggetto un defunto, qualcuno che faceva parte della sfera delle conoscenze del praticante. Il praticante è indotto a prendere consapevolezza della morte, a vederla come cosa certa e vicina a noi. A un primo livello di comprensione, il praticante crede che il bene che sente, che nasce dal coltivare un sentimento di connessione e benevolenza con chi non c’è più, siano trasferibili, comunicabili, “cedibili” per la migliore rinascita di quello che fu il suo caro, in virtù dell’interdipendenza tra i fenomeni in campo. Il “merito” è, prima di tutto, una sana abitudine che si consolida attraverso la ripetizione e l’approfondimento dei suoi effetti. Il “merito” è la sana abitudine di osservare come nel cuore e nella mente sorge un bene attraverso il “lasciar andare”; un lasciar andare che si esprime in atti di generosità e meditazione, nonché nel fatto stesso di lasciar andare il “merito”, offrendolo a beneficio di altri. Il merito, poi, si radica e cresce in altre virtù, i cui frutti possono essere colti dal praticante e da chi gli sta vicino, potenzialmente in un processo senza limiti. Il rito e i suoi simboli permettono di accedere ad una relazione diversa con la realtà, superando barriere di spazio, di tempo e di logica ordinaria dei fatti. Facciamo un esempio. In un contesto familiare o in una comunità come la nostra, “dedicare i meriti alla memoria di qualcuno”, in thai ทำบุญ (tham bun), ha delle implicazioni su vari piani, non semplici da spiegare, a partire dal tempo in cui tutti i “soggetti” sono ancora in vita. Una madre crescerà ed educherà i suoi figli all’insegna del bene e cercherà in tutti i modi di adempiere al suo ruolo di madre, coltivando il Dhamma, sviluppando tutte le virtù e ispirando i figli, sapendo che, a seconda di quante buone abitudini svilupperà in sé e nei figli, lei avrà modo di “tornare” a ispirare i figli, a guidarli ed educarli, anche dopo la propria morte: ogni volta che i figli agiranno e praticheranno il Dhamma, si ispireranno a lei proprio dedicandole i meriti e la gratitudine. La madre si prepara in vita ad essere “campo di merito” per i figli, dopo la morte, continuando così ad educarli nel bene, mantenendosi in una relazione materna, di nutrice dello spirito, oltre i limiti fisici, e offrendosi, ancora una volta, come strumento per la realizzazione de loro bene. Chi rimane in vita svilupperà qualità positive che condizioneranno il mondo, rendendo possibile la migliore “rinascita” materna. In una comunità in cui certe cose sono coltivate e tenute in alta considerazione, non possono che prodursi esiti positivi. Ad un altro livello, la simbologia dell’acqua, con il semplice rito del versare l’acqua da un contenitore pieno ad un contenitore vuoto, offre ad una mente aperta ed attenta la possibilità di diverse riflessioni. Il “merito” è spesso definito, in lingua thai, come “acqua del cuore”, “flusso del cuore”, น้ำหัวใจ (nam chai). L'acqua fluisce dalla fonte della nostra esperienza e si espande e si riversa, permeando la realtà che ci circonda, condizionandola positivamente. L’acqua, simbolo di vita, è un elemento che riempie e pervade lo spazio in cui è contenuta. Assume la forma del contenitore, adeguandosi plasticamente ad esso, senza lasciare vuoti, con continuità e fluidità. Per le sue caratteristiche, essa evoca vinnam, la coscienza, l’aggregato che anima il corpo, del quale rappresenta la forza vitale. L’acqua è un ottimo diluente, assorbe le impurità che sono presenti nei diversi contenitori e li porta con sé, mantenendone le tracce e la “memoria”, ma senza che siano alterate le proprie caratteristiche fisiche. L’acqua che viene travasata, ci rimanda all’insegnamento della “rinascita”. L’acqua spegne la sete. Essa riempie i calici per spegnere la sete. Essa va dal pieno al vuoto, per osmosi, secondo una legge naturale. I contenitori, di diversa capacità e forma, evocano rupam, l’aggregato del corpo, che invece è inerte, statico, inanimato, e con le sue impurità contamina l’acqua che passa di contenitore in contenitore. Solo in contenitori più puri, trasparenti, cristallini, permettono di osservarne le impurità che sono dissolte nel fluido. Solo guardando attraverso un corpo trasparente e sottile, più da vicino, sarà possibile osservare distintamente l’acqua e ciò che la inquina. La sete non cessa con il semplice versare liquidi nei calici, ma solo se finalmente si beva, a condizione, però, che l’acqua sia pura; una purezza, che è possibile ripristinare solo lasciandola decantare, lasciandola ferma. È chiaro che questo ci rinvia alla pratica meditativa. Solo dopo aver finalmente potuto bere, ecco che la sete cessa. In questo c’è l’auspicio che tutti noi, e il defunto, si possa giungere a dissetarci e cessare di travasare fluidi, accumulando impurità. In questa sintetica spiegazione, abbiamo voluto riflettere insieme su quali siano le implicazioni di insegnamenti e riti maturati nel corso di secoli, su quanto i linguaggi simbolici e i rituali possano insegnarci e possano favorire in noi il sorgere di intuizioni e comprensioni profonde. Il senso peculiare del discorso ai Kalama Accogliere nelle nostre pratiche determinati insegnamenti non verbali e sviluppare il Dhamma in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue dottrine, al di là delle nostre convinzioni, non significa credere e aderire ciecamente ad esse. Si tratta, invece, di realizzare il senso profondo del discorso fatto ai Kalama, che spesso viene citato senza comprenderne a pieno le implicazioni. Si tratta, cioè, di verificare e sottoporre questi insegnamenti al vaglio dell’esperienza, da dentro il sistema che si vuole sperimentare, entrando nel sistema, attuando l’insegnamento, e non rimanendo all’esterno di essi, fermi nelle nostre convinzioni, da quella posizione egocentrica a partire dalla quale siamo soliti esercitare le nostre facoltà critiche. La verifica implica il provare a guardare il mondo dalla prospettiva del sistema che si vuole verificare, con gli strumenti che quel sistema ci propone. Fare il contrario sarebbe metodologicamente sbagliato, oltre che sterile. Nello sforzo di assumere un nuovo sguardo sulle cose, è evidente che il Dhamma ha già iniziato ad agire, sciogliendo le incrostazioni dell’ egocentrismo. Questo atteggiamento di accoglienza di ciò che non si conosce, di non giudizio nella consapevolezza di essere ignoranti, permetterà l’emergere del significato dai fatti, dai gesti che si stanno compiendo; a patto, quindi, che la pratica venga agita e non rimanga solo sul piano teorico. Riflettere storicamente o sociologicamente sugli insegnamenti intorno alla “rinascita” può essere utile sul piano culturale, ma non su quello spirituale. Sono due piani distinti. L'invito della tradizione è a praticare tali insegnamenti e, nel caso, a riflettere su di essi come sull’orizzonte dei significati nel quale abbiamo deciso di entrare per conoscerne la realtà. Ecco che, osservare la mente, il corpo, l’“acqua” che scorrere nella quotidianità con uno sguardo più ampio, come la tradizione ci insegna, ci può permettere di cogliere aspetti che altrimenti, dal di fuori, non avremmo mai potuto cogliere. Assumere l’insegnamento in tutti i suoi aspetti è una sfida che a poco a poco un praticante deve essere capace di raccogliere. Bisogna rispondere alla “sfida” del Buddha e verificarne l’insegnamento a casa sua, vincere il “derby” con il Buddha, giocando la partita fuori casa! Altrimenti, non ha alcun senso allenarsi. Allora, lo stesso stare nel presente, il “qui e ora” della meditazione, ma anche quello della vita quotidiana, non avranno più lo stesso significato, ma un sapore di eterno. Il presente lavoro è una trascrizione di un discorso di Dhamma che Ajahn Maha Bua tenne nel monastero della foresta di Baan Taad, Udon Thani, in Thailandia. Per la traduzione ci si è avvalsi dei sottotitoli in inglese della registrazione video del discorso e direttamente dal thailandese. Il video originale è reperibile su YouTube al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=iI5TQnYcFn8&feature=youtu.be&fbclid=IwAR2gaEEOpsXkIYJK5bGanvjk0iUfWJLF0GMbk2hH_iOm9HukwBipnRUpAtc Nella prima parte in cui Luangta approfondisce la sua gnosi, abbiamo messo in corsivo e grassetto le domande che hanno condotto all'approfondirsi della sua visione e quiete interiori. Abbiamo aggiunto dei sottotitoli per agevolare la lettura del lungo discorso, che nello stile dei monaci di questa tradizione, è più simile ad un flusso di pensiero e a un monologo interiore, che li porta a spaziare nella risposta, con frequenti riferimenti all'attualità sociale e politica, che interpretano con una lettura non convenzionale, qui ben illustrata con la metafora dei cani in lotta. I discorsi degli Ajahn più che essere riflessioni erudite o istruzioni complesse, sono più delle testimonianze di quanto hanno personalmente conseguito e verificato. Il monaco condivide quanto osservato, per compassione, istruendo su quanto esperito. Luangta non fa in questo eccezione. Il linguaggio del venerabile Maha Bua è energico e di indiscussa autorevolezza. Invitiamo a tal proposito la visione del video per poterlo approfondire, osservandone anche semplicemente la mimica e il tono della voce. Il discorso riporta potentemente al centro della nostra pratica il senso proprio e profondo del Dhamma del Buddha e ci invita a mollare ogni indugio e ad affrontare, una volta per tutte, le nostre riserve sull'insegnamento, in ogni suo aspetto, invitandoci a verificarlo direttamente con una determinazione eroica, entrandoci dentro, penetrando la natura della realtà con tutto il corpo, la mente e il cuore. La realtà alla quale il penetrante sguardo del meditante avanzato, quale è Luangta, contempla, della quale cerca di penetrarne la natura, il centro, è una realtà trasfigurata dagli assorbimenti meditativi già conseguiti, che a lui appare sotto una forma di un segno luminoso. Quanto da lui riferito non è materia di credo, bensì di comprensione e visione. E' cosi anche nella parte, in cui Luangta parla dei destini dopo la morte, in cui il maestro conclude ammonendo: "non credete, perchè non avete visto!". Luangta ribadisce con ciò il metodo, con il quale ciascun discepolo del Beato, è chiamato a verificarne l'insegnamento, così come chiaramente espresso nel Kalama sutta A.N. 3.65. Insegnamenti come quelli concernenti i reami e le rinascite, o che riguardano aspetti più difficili del Sentiero, non sono presentati come insegnamenti ai quali aderire ciecamente per fede, bensì sono proposti come una testimonianza veritiera, la cui onestá é suggellata dal pianto e dalla lucidità del ricordo, ricco di dettagli. Quanto riportato é semplicemente l’esito progressivo e inesorabile della sua realizzazione; sono ciò che si consegue, una volta dimostrata, con i propri sforzi, l'insegnamento letterale; sono il frutto della conseguita "comprensione del mondo"; sono quanto da lui visto con il proprio discernimento, e quindi proferisce, quasi profeticamente, come una visione ultramondana. Luangta non chiede di credere, quanto di realizzarlo direttamente. Egli si limita a prospettare quanto da lui detto come un' ipotesi da verificare, esortando con un solenne:"il Buddha non mente!", ricordando all'uditore la sua missione di ricercatore di verità. La certezza della sua realizzazione, l'ortoprassi della sua personalissima esperienza, l'ortodossia della sua testimonianza, si fondano sulla certezza di quanto il "cuore ha osservato e compreso" direttamente, quindi sul primato dell'esperienza personale e del suo discernimento. Il discernimento in questo discorso si esprime in un costante interrogarsi sulla natura di quanto vissuto, che in questo discorso articolato, si risolve in due circostanze in un ascolto quasi oracolare del Dhamma che emerge dal cuore. Il dubbio che induce all'approfondimento, non quello scettico, dal quale egli si riconosce libero, procura a Maha Bua una costante e proficua riflessione, circa il suo percorso. Si persuade che il suo personalissimo e solitario sforzo, sono all'insegna della sequela del Maestro, constatando che molti aspetti del suo percorso introspettivo, ripercorrono il racconto canonico della notte del più celebre Risveglio. Avendo praticato secondo gli insegnamenti del Maestro, gli esiti non potevano che essere gli stessi, quindi "corretti"! L'esito positivo del riscontro, circa la bontà della sua esperienza, gli appare ovvio, alla luce di un percorso fondato sui valori tradizionali, ovvero: dana, sila,samadhi. Il valore della Veritá, il Supremo Dhamma, come dice Ajahn Maha Bua, non é nella sua originalità. La Veritá non ammette originalità, mutazioni nella sua sostanza. Lo straordinario, il valore é il fatto stesso che sia statopossibile attingere alla Verità, e poterla testimoniare come fatto vivo e reale, perseguibile attraverso la stessa via tracciata dai predecessori. La lettura di questa testimonianza di Dhamma, ci riporta al centro dell’attenzione, il "quid" della pratica buddhista e dello "sforzo" meditativo, in cui il "lasciar andare" coinvolge qualsiasi realtà, anche quelle più sottili della coscienza e che la realizzazione di "anatta", coinvolge il soggetto, quanto il mondo che lo circonda. La piena comprensione dell’insostanzialitá della personalitá é infatti presentata quasi escatologicamente, in cui all’implosione, o ribaltamento del centro come dice Maha Bua, delle visioni riferite alla sfera dell’esperienza soggettiva, corrisponde l’esplosione e la catarsi della visione dei fenomeni esterni così come erano soliti essere percepiti. Non possiamo concludere che in realtà Ajahn Maha Bua ci sta istruendo circa la pratica profonda della meditazione, la quale é e rimane il banco di esame di ciascun figlio del Buddha. Dopo questa lettura, una pratica meditativa che non contemplasse questo orizzonte più ampio, diviene difficile comprenderla, ricordandoci che per quanto ampio sia un orizzonte, esso è un’illusione ottica o come direbbe Luangta Maha Bua un “Pericolo Ultimo”. Un ringraziamento sentito va a tutti gli amici nel Dhamma della comunità di Pescara, per l'attenzione e l'interesse per il Dhamma. Un sentito ringraziamento va all'amico Andrea Tomassetti, per aver proposto il lavoro e la traduzione, offrendoli a beneficio di tutti. Che tutti i meriti di questo sforzo siano condivisi con tutti gli esseri senzienti. Che tutti gli esseri siano felici Che tutti gli esseri sia liberi dalla sofferenza. Che tutti gli esseri siano liberi dall'illusione. Domanda di una praticante laica: "Per favore, mi insegni come investigare per raggiungere le basi della morte". 1.La natura della mente e il cardine dell'esistenza. Le basi della morte esistono proprio lì, nella mente. La morte e la nascita sono entrambe presenti all'interno della mente. La stessa mente non nasce mai e non muore mai. Piuttosto, sono le cose contaminanti, che si infiltrano dentro ad essa, che ci portano a ripetute nascite e morti. Lo capite? Guardate la mente! Se non vedete la natura inquinata della mente, non riuscirete a vedere la natura velenosa dei contaminanti. In questo momento è la mente ad essere in grave pericolo. Quindi non pensate solo a quanto preziosa essa sia, perché il pericolo si nasconde proprio lì. Se riuscite a vederlo chiaramente, vedrete la nocività che è radicata nel profondo. Capite cosa intendo? Finché continuerete a tenere in grande considerazione la mente, ne rimarrete legati. È così semplice. Non dite che non vi avevo avvertito..! Quando arriva il momento, dovete spazzare via tutto, finché non rimane nulla. Non conservate nulla. Qualunque cosa voi lasciate intatta, questo è il Pericolo Ultimo. Parlare di questo mi ricorda il tempo in cui mi addestravo al Wat Doi Dhammakedi. Era mattina presto, poco prima del pasto. In quei giorni la mia mente possedeva una qualità così sorprendente, che era incredibile da osservare. Ero completamente sorpreso da me stesso, pensando: “E' incredibile! Perché questa mente è così straordinariamente radiosa? ” Rimasi seduto in meditazione contemplando la sua luminosità, incapace di credere quanto meravigliosa mi apparisse. Ma questo splendore che pensavo fosse così sorprendente era, in effetti, il Pericolo Ultimo. Capite cosa intendo? Rimaniamo inevitabilmente ammaliati da questa mente radiosa. In verità, ero bloccato su di essa, ingannato da essa. Vedete, quando non rimane nient'altro, ci si concentra su quest'ultimo punto focale; un punto che, essendo il centro del ciclo perpetuo di nascita e morte, è in realtà l'ignoranza fondamentale, che chiamiamo avijjã. Questo punto focale è l'apice di avijjã, l'apice stesso della mente nel samsãra. Quando nient'altro vi era rimasto, a quel punto semplicemente ammiravo la radiosità espansiva di avijjã. Tuttavia, quella radiosità aveva un punto focale. Può essere paragonato al filamento di una lampada a olio. Il filamento si illumina intensamente e da lì che la luce si estende per illuminare l'area circostante. Questo è stato il problema cruciale: quello che mi ha tanto stupito in quel momento, facendomi esclamare: “Wow! Perché la mia mente è così incredibilmente luminosa?! Sembra che abbia completamente trasceso il mondo del samsãra.” Guardatelo! Tale è lo straordinario potere che mostra avijjã quando raggiungiamo la fase finale della pratica. In quel momento, tuttavia, non mi ero reso conto di essermi infatuato dell'inganno di avijja. Poi all'improvviso, spontaneamente, sorse un'intuizione del Dhamma, come se qualcuno stesse parlando dal cuore. Come potrei mai dimenticare..! L'intuizione era:"Se vi è da qualche parte un punto o un centro di “colui che conosce”, questo è il cardine dell'esistenza". Proprio come il centro luminoso del filamento di una lampada a olio. Guardatelo! Mi ha detto esattamente quello che dovevo comprendere: proprio questo punto è l'essenza dell'esistenza. Ma allora, non riuscivo ancora a capirne il significato, e quindi ero combattuto. Il punto il centro, era in realtà il punto centrale di quella luminosità. Stavo investigando su quel "punto", il periodo successivo alla morte del Venerabile Achan Mun. Se fosse stato ancora vivo in quel momento, gli avrei esposto il mio dilemma: "c'è forse da qualche parte, un punto o un centro di “colui che conosce”, che sia il cardine dell'esistenza,?", mi avrebbe immediatamente risposto: "è il punto focale di quella luminosità!". Se lo avessi in quel momento compreso quel punto si sarebbe disintegrato all'istante. Non appena avessi capito il suo significato, avrei anche visto la sua nocività, facendolo scomparire. Invece, lo stavo ancora proteggendo e preservando con cura! E' proprio lì che sta il pericolo supremo ,proprio lì! Il punto focale del Pericolo Ultimo, è il punto più sorprendentemente luminoso di quella radiosità, che costituisce il nucleo centrale dell'intero mondo della realtà fenomenica. Non lo dimenticherò mai! Era il mese di Febbraio. Il corpo del venerabile Achan Mun era appena stato cremato, ed io ero andato in montagna. Lì mi arenai su questo problema. Mi sconvolse completamente. Alla fine, non ottenni alcun beneficio dalla massima del Dhamma che nacque dal mio cuore. Invece di essere un enorme vantaggio per me in quel momento, divenne parte di quella stessa enorme illusione che mi stava tormentando. Ero confuso... "Dov'è, questo punto?" Era, ovviamente, il centro di quella luminosità, ma non mi venne mai in mente, che il centro di quella mente radiosa potesse essere il Pericolo Ultimo. Credevo ancora che fosse la Virtù Suprema. Ecco come i Kilesa ci ingannano. Capite? Sebbene fossi stato avvertito che era il Pericolo Ultimo, ne subivo ancora l’incantesimo, facendo in modo che lo vedessi come la Virtù Ultima. Non dimenticherò mai come quel dilemma mi attanagliava. Alla fine lasciai Wat Doi Dhammakedi e andai a Sri Chiang Mai nel distretto di Ban Pheu. Rimasi lì per tre mesi, vivendo nel profondo della foresta nella Grotta di Pha Dak, prima di tornare al Wat Doi Dhammakedi con quel dilemma che mi pesava ancora molto. Quindi, rimasi sulla cima della montagna, e finalmente il problema fu risolto. Quando arrivò quel momento decisivo, il tempo e lo spazio cessarono di avere rilevanza, essi non potevano assolutamente interferire. Tutto ciò che apparve in quel momento fu la radiosità naturale e splendente della mente. Avevo raggiunto il livello in cui non mi era rimasto altro da indagare. Avevo già lasciato andare tutto, era rimasta solo quella radiosità. Fatta eccezione per il punto centrale della radiosità della mente, l'intero universo era stato definitivamente lasciato andare. Capite cosa intendo? Ecco perché questo punto è il Pericolo Ultimo. Quindi l'intera indagine si era concentrata su quel punto. Alla fine sono arrivato a chiedermi perché quella mente avesse così tanti aspetti diversi. Tutte le facoltà erano state portate in quel singolo punto. Posso affermare inequivocabilmente che in quel momento, ogni aspetto della mente erano noti e che qualunque cosa fosse stata oggetto di conoscenza, era conosciuta come soggetta al cambiamento. Non appena qualcosa venisse conosciuta, subito dopo era già mutata. Un aspetto veniva visto come buono, un altro come cattivo. L'indagine si era concentrata su quel punto, analizzando tutto, cercando di capire: “Perché questa singola mente ha tanti aspetti diversi? È come se non fosse centrata.” Qualunque aspetto della mente fosse stato oggetto di indagine, tutte le sue possibili mutazioni venivano chiaramente conosciute e comprese secondo la profondità propria di quello specifico livello della pratica del momento. In quel momento era un livello di suprema consapevolezza e suprema saggezza. Questi due fattori insieme sono state in grado di tenere il passo con tutti i cambiamenti della mente; non importa quanto sottili fossero diventate. A quel punto, la suprema consapevolezza e la suprema saggezza hanno continuato a concentrarsi sul punto focale della mente con l'obiettivo di interrogarlo: “Perché questa mente ha aspetti così diversi? Un momento è buona, il momento successivo è contaminata. I cambiamenti provengono dall'interno. Vedete! Sto riuscendo a raggiungerli ora. Un momento è contenta, il momento successivo c'è malcontento”. Nel regno della realtà convenzionale, tali condizioni sono invariabilmente parte integrante della mente. Con nient'altro da indagare, la suprema consapevolezza e la suprema saggezza si concentrarono direttamente su quel punto in cui avvenivano i cambiamenti. Un momento vi era contentezza, il momento successivo scontentezza; un momento di luminosità, il momento successivo era offuscata. Ma dovete capire che quelle esperienze di contentezza e malcontento, di luminosità e ottusità, erano così estremamente lievi che erano appena percettibili. Tuttavia, la suprema consapevolezza era su di loro per tutto il tempo. Ancora mi dissi:"Perché questa mente ha tanti aspetti diversi?" In quel frangente, la consapevolezza lasciò cadere tutto il resto e rivolse tutta la sua attenzione al soggetto principale. Tutte le facoltà dell'indagine si riunirono nella mente e tutti loro furono interconnessi. Perché ai massimi livelli, la suprema consapevolezza e la suprema saggezza sono così estremamente sottili che permeano ovunque, penetrando tutto senza eccezioni. La suprema consapevolezza e la suprema saggezza a questo livello incommensurabile differiscono dalla suprema consapevolezza e saggezza spontanee, che vengono utilizzate per raggiungere quell'ultimo stadio. La consapevolezza e la saggezza spontaneamente lavorano all'unisono, senza chiedere conferma. Esaminano le cose in fasi successive, sezionandole a pezzi, pezzo per pezzo. A questo livello incommensurabile, anche la suprema consapevolezza e la suprema saggezza lavorano all'unisono senza chiedere conferma, ma permeano tutto simultaneamente. A quel momento stavo esaminando il punto centrale della mente. Tutte le altre questioni erano state esaminate e lasciate andare; restava solo quel piccolo punto da "conoscere". Era diventato evidente che sia la contentezza che il malcontento erano emersi da quel punto. Luminosità e ottusità: emergevano tutti da quel punto. "Perché quella mente aveva così tante caratteristiche diverse?" Quindi, in un istante spontaneo, il Dhamma rispose alla domanda. Proprio così! Questo si chiama "il Dhamma che sorge nel cuore". I Kilesa che sorgono nel cuore sono forze che ci legano; Il Dhamma che sorge nel cuore ci libera dalla schiavitù. All'improvviso il Dhamma sorse, come se qualcuno stesse parlando dal cuore: "che si tratti di ottusità o luminosità, contentezza o malcontento, tutte queste cose sono anattã, non sé". Ecco! Alla fine, è stato Anattã a recidere quelle cose una volta per tutte. Questa intuizione finale e conclusiva potrebbe sorgere come una qualsiasi delle Tilakkhana, i Tre sigilli del Dhamma: Anicca (Impermanenza), Dukkha (Sofferenza), Anattã (Non sè), a seconda dell'animo di una persona. In quel momento a me si manifestò Anattã. Il significato era chiaro: lascia andare tutto. Tutte loro sono Anattã. Quando emerse la comprensione, che ottusità, luminosità, contentezza e malcontento sono tutte Anattã, la mente divenne assolutamente immobile. Avendo concluso che tutto fosse Anattã, non aveva spazio di manovra. La mente non poteva fare nulla. Era impassibile, completamente a riposo, in quel livello di Dhamma. Non aveva alcun interesse per Attã o Anattã, non gli interessava contentezza o malcontento, luminosità o ottusità. Rimase proprio al centro: neutrale e impassibile. Ma impassibile con suprema consapevolezza e suprema saggezza; non distrattamente impassibile, scioccamente spalancata come nella comune accezione. Parlando in termini mondani, sarebbe potuto sembrare essere distratta; ma, in verità, non vi era mancanza di attenzione. La mente era semplicemente sospesa in una condizione d'impassibilità. 2.L'esito ultimo: il crollo del mondo. Quindi, da quello stato neutrale e impassibile, si verificò all'improvviso, che il nucleo dell'esistenza, il punto o il centro di colui che conosce, si capovolgesse all'istante. Essendo finalmente tutto ridotto ad Anattã: luminosità, ottusità e tutto il resto, furono improvvisamente fatti a pezzi e completamente distrutti una volta per tutte. Nel momento in cui Avijjã si ribaltò e scomparve dalla mente, il cielo sembrò crollare mentre l'intero universo tremava. In verità, è solo Avijjã che ci fa vagare costantemente nell'universo del samsãra. Capite? Quindi, quando Avijjã si ribaltò e svanì, sembrò che l'intero universo si fosse rovesciato e che fosse svanito con esso. Terra, cielo: tutto crollò in un istante. Nessuno conduce in quel momento decisivo. Tutto sorse di per sé stesso, secondo un principio di natura trova da solo il modo. 3.Il Supremo Dhamma L'universo crollò da solo. Originato da una condizione neutrale della mente, tutto accadde così all'improvviso: in un attimo l'intero universo sembrò ribaltarsi e svanire. Fu così straordinario! Santu numi! Davvero magnifico! È troppo straordinario per dirlo a parole. Tale è l'incredibile natura del Dhamma che ora sto ad insegnarvi. Le lacrime scorrevano mentre sperimentavo tutto questo. Guardatemi! Anche ora stanno scorrendo lacrime al ricordo di quell'evento. Queste lacrime sono opera dei khandha (N.d.T.: I cinque aggregati), i quali, per favore, comprendete, che non esistono in quello stato naturale di purezza. Quella natura apparve all'improvviso, in tutta la sua incredibile magnificenza. Voglio che tutti voi, così benevolenti, comprendiate com'è realmente il Dhamma del Buddha. Oh! Così davvero, davvero incredibile! Santi numi, le lacrime mi sono scese sul viso. Oooh! Completamente stupito, esclamai: “È così che il Buddha raggiunse l'Illuminazione? Eh? È così che ha raggiunto il Risveglio? È questo il vero Dhamma? ” Era qualcosa che non avevo mai pensato o immaginato. Semplicemente sorse in un istante. Oh! Indescrivibilmente incredibile! Guardatemi. È stato così sorprendente che sto piangendo anche adesso solo a pensarci. È ancora vivido nella mia memoria. Da allora è rimasto con me. Tutto il mio corpo tremò in quel momento. Non so come spiegarlo. Tutto è accaduto all'istante: il cielo è crollato e l'universo è completamente svanito. Dopo ciò, ho continuato a ripetere: “Cosa? È così che il Buddha raggiunse l'Illuminazione? ” Ma in realtà, non era necessario chiedere, perché avevo incontrato la Verità in me stesso. “È questo il vero Dhamma? È questo il vero Sangha? ” Tutte e tre (N.d.T.: le Gemme) si erano riunite, fondendosi in un Dhamma estremamente sorprendente, quello che io chiamo l'elemento Dhamma. "Che cosa? Come possono il Buddha, il Dhamma e il Sangha essere la stessa cosa? " Non avrei mai immaginato che sarebbe stato possibile. “Il Buddha è il Buddha, il Dhamma è il Dhamma. Il Sangha è il Sangha. " Sin da quando ero abbastanza grande da intendere di simili questioni, questo mi era stato inculcato nel cuore. Ma al momento in cui il Supremo Dhamma sorse in tutto il suo splendore, tutti e tre erano della stessa natura: la vera natura di quel meraviglioso Dhamma. Una volta che era sorto così brillantemente, cose che non avevo mai saputo, furono improvvisamente rivelate. Non è un inganno quello che sto insegnando alle persone. Ancora adesso questo straordinario Dhamma mi persuade totalmente. È onnicomprensivo, di una brillantezza che abbraccia l'intero cosmo, rivelando tutto. Nulla rimane celato o nascosto. Le conseguenze del bene e del male e l'esistenza del paradiso e dell'inferno sembrano innegabilmente ovvie. Vorrei che potessero colpire tutti voi scettici, con una tale forza, tutti voi che avete permesso ai Kilesa di ingannarvi a credere, che non ci siano cose come le conseguenze del male o del bene, o cose come il paradiso e l'inferno. Queste cose sono eterne, onnipresenti da tempo immemorabile.Non le avete ancora viste. Capite? Queste cose esistono da sempre. Ignorarle continua a danneggiare gli esseri viventi che credono scioccamente che non esistano; che sono così accecati dagli inganni dei Kilesa, che non riescono a intravedere mai queste cose. Cosa potrebbe esserci di più caldo dei fuochi dell'inferno?! Convenzionalmente, ci sono i cinque crimini, che sono i più atroci di tutti, che conducono ai cinque fuochi infernali. I cinque crimini più atroci sono: patricidio, matricidio, uccisione di un arahant, ferire un Buddha e causare uno scisma nel sangha. Tutti e cinque questi kamma malvagi sono conosciuti nel cuore. E tutti diventano chiaramente evidenti in quegli attimi di grazia. Quindi, non è necessario chiedere dove si trovano paradiso e inferno. Il Buddha non ha mentito. Queste cose erano chiaramente conosciute anche da lui, e le descrisse proprio come le vide. Ah! Questo supremo Dhamma è strano oltre ogni immaginazione. Egli tutto comprende del cuore. Quando le prove sono così chiare, che bisogno c'è d'indagare ulteriormente? Questa chiarezza assoluta è in completa armonia con il cuore, quindi non è necessario porsi domande. Successivamente, rivolsi la mia attenzione all'indagine sulle mie vite passate. È stato terrificante pensare quante volte sono nato e quante volte sono morto, quante volte sono rinato all'inferno, quante volte sono rinato nei cieli e poi nei regni di Brahmã, per poi ricadere di nuovo all'inferno. Sembrava che la mente stesse salendo e scendendo una rampa di scale. La stessa mente non muore mai. Capite questo? La mente non muore mai. Il kamma è sepolto lì nella mente. Il buon kamma conduce la mente verso l'alto nei cieli e nei regni di Brahmã. Quindi, quando il buon kamma è esaurito, il cattivo kamma che rimane sepolto lì, tira indietro la mente nei regni infernali. Come se la mente salisse e scendesse una rampa di scale. Capite? È così, quindi svegliatevi e notatelo! Oggi ho rivelato tutto completamente, tanto che le lacrime mi hanno rigato il volto, affinché tutti voi poteste vederlo. Questa è follia o è saviezza? Pensateci. Ascoltate attentamente questo Dhamma che insegno al mondo. Posso dire inequivocabilmente: la mia mente non ha coraggio e non ha paura. È completamente al di sopra di queste cose. Stando così le cose, rivolsi la mia attenzione alle indagini sulle mie nascite passate. Mamma mia! Se i cadaveri di questo individuo fossero sparsi in lungo e in largo per la Thailandia, non rimarrebbe uno spazio vuoto. Solo questo individuo! Immaginate quanto tempo ci vuole per nascere e morire così tante volte! Sarebbe impossibile contare tutte le nascite e le morti. Non ci provate nemmeno! Ce n'erano di gran lunga troppe. I miei pensieri poi si rivolsero a considerare a tutti gli innumerevoli cadaveri di ogni persona venuta al mondo. Ogni mente di ogni essere vivente ha esattamente la stessa storia di nascite e morti ripetute. Tutti sono uguali in questo senso. Estendendosi indefinitamente, il passato di tutti è affollato da cadaveri incalcolabili! Era una visione insopportabile. Di conseguenza, mi sono sentito disgustato mentre rivedevo le mie vite passate. Mamma mia! Essendo nato così tante volte, continuavo ancora a lottare per rinascere ancora e ancora. Se il Dhamma non avesse finalmente fatto mettere giudizio, allora sarei continuato allo stesso modo indefinitamente. Mi applicai in questo modo, esaminando la natura del mondo; più esaminavo la natura del mondo, più diventava insopportabile. Ho visto la stessa situazione ovunque. Ogni essere vivente in tutto l'universo è stato catturato nello stesso circolo vizioso. In questo erano tutti uguali. 4.Il senso dell'insegnamento: i tipi di persone. Quindi, un sentimento di scoraggiamento sorse spontaneamente nel mio cuore. Ho pensato: “Come potrò mai insegnare alla gente questo Dhamma? Qual è lo scopo dell'insegnamento? Poiché se il vero Dhamma è così, come potrebbe essere presentato in modo che altri possano conoscerlo e capirlo? Non sarebbe meglio vivere il resto della vita e poi semplicemente trapassare?” Ecco! Vedi? Ero sfiduciato. Mi sentivo poco incentivato a insegnare. Come se, avendo trovato io una via di fuga, fossi soddisfatto di scappare da solo. Non vedevo alcun beneficio che potesse derivare dall'insegnare agli altri. È così che inizialmente ho considerato la questione. Ma quella non era la conclusione. Sorse spontaneamente nel mio cuore, una riflessione su questo argomento, che andava a svilupparsi gradualmente. Guardando lo stato del mondo, mi sono sentito scoraggiato. Ho visto che quelle persone che vivevano nell'oscurità totale erano senza speranza. Essendo così cieche da non avere delle possibilità, il Buddha chiamò tali persone padaparama . Elevando lo sguardo sulla scala, vidi gli altri tipi di persone conosciute come neyya e vipacitaññu . Le persone della categoria neyya possono essere addestrate sulla via del Dhamma. A volte fanno progressi, a volte perdono terreno. Gli individui Neyya sono pienamente in grado di comprendere l'Insegnamento e metterlo in pratica. Non devono essere negligenti o perderanno terreno. Ma se sono seri nella loro pratica, possono progredire rapidamente. A seconda del grado di impegno o meno, i Neyya possono andare in entrambe le direzioni. Gli individui Vipacitaññu avanzano inesorabilmente verso l'obiettivo; non perdono mai terreno. Tuttavia, i loro progressi sono più lenti di quelli degli ugghatitaññu , poiché gli ugghatitaññu sono individui la cui intelligenza intuitiva è così acuta che sono sempre pienamente pronti a fare una svolta decisiva. Se fossero bestiame, starebbero ad attendere al cancello del recinto. Non appena il cancello venisse aperto, uscirebbero di scatto. Gli Ugghatitaññu sono capaci, dotati di comprensione rapida, che permette loro di passare oltre in un attimo d'intuizione. Tutti gli esseri viventi rientrano in una di queste quattro categorie. Mentre studiavo la natura del mondo, essa si chiarì naturalmente, da sola, in questi quattro tipi di individui. Potevo vedere che esistevano individui superiori in quella moltitudine di umanità che mi era parsa così scoraggiante riguardo alle sue capacità di applicarsi all'insegnamento. Gli Ugghatitaññu : erano pronti ad attraversare in un attimo. In ordine decrescente, c'erano i vipacitaññu : quelli che avanzavano rapidamente verso l'obiettivo. Quindi i neyya : quelli il cui desiderio di adagiarsi e di prendersela comoda, si combina con il loro desiderio di essere diligenti. Capite cosa intendo? Queste due forze opposte si contendono la supremazia nei loro cuori. E infine padaparama: quelli che sono umani solo in apparenza fisica. Non hanno guadagnato nulla per migliorare le loro prospettive future. La morte per queste persone è la morte senza possibilità. C'è solo una direzione possibile in cui possono andare: giù! E cadono sempre di più ad ogni morte successiva. La risalita è impedita, poiché non hanno ottenuto assolutamente nulla di utile da portare con sé. Possono solo andare giù. Ricordatelo bene! Questo insegnamento viene direttamente dal mio cuore. Pensate che stia mentendo? Se confrontato con un cuore assolutamente puro, il mondo è un grande bidone della spazzatura, contenente diversi tipi di rifiuti. Dal più alta qualità, gli ugghatitaññu , al più basso e più comune, il padaparama. Tutti questi sono riuniti nello stesso grande calderone. L'intero mondo della realtà convenzionale è un grande bidone della spazzatura che è contaminato da cose buone e cose cattive tutte mescolate insieme. Capite? La mia indagine ha setacciato questa enorme pila di immondizia e ha scoperto quattro gradi distinti. Quindi, da quell'indagine, nacque un'intuizione per contrastare quel sentimento di scoraggiamento che mi rendeva riluttante a insegnare agli altri la Via. All'improvviso un pensiero ispiratore sorse spontaneamente e proprio proprio lì nella mente: “Se questo Dhamma è così supremo, così superbo che nessuno può comprenderlo, sono forse una specie di essere divino? Che ne è di me? Come mai sono arrivato a realizzare questo Dhamma? Qual è stata la ragione? Cosa ha portato a questa realizzazione?”. Non appena ho preso in considerazione la questione, i miei pensieri si rivolsero al percorso di pratica che mi ha condotto a quella realizzazione. Era lo stesso percorso che il Buddha aveva insegnato: dãna, sïla, bhãvanã. Questo è stato il percorso che mi ha portato a quel punto. Non c'è altro modo per raggiungerlo. Rivedendo la mia pratica passata, compresi che, poiché seguire questo percorso mi aveva portato a quel punto, far seguire lo stesso percorso poteva condurre anche altri lì. Forse c'erano pochi in grado di farcela, ma sicuramente ce n'erano alcuni. Non potevo negarlo. La consapevolezza che almeno alcune persone avrebbero tratto grande beneficio dal mio insegnamento mi incoraggiò ad iniziare a insegnare a coloro che erano degni di essere istruiti. Successivamente, i monaci iniziarono a radunarsi intorno a me nelle foreste e nelle montagne in cui vivevo, e io insegnai loro ad essere risoluti nella loro pratica. A poco a poco, il mio insegnamento ha iniziato a diffondersi, fino ad oggi che si estende in lungo e in largo. Ora persone provenienti da tutta la Thailandia e da tutto il mondo vengono ad ascoltare Achan Mahã Bua esporre il Dhamma. Alcuni viaggiano qui per sentirmi parlare di persona; altri ascoltano registrazioni dei miei discorsi trasmessi in tutta la Thailandia alla radio e su Internet. Garantisco al cento per cento che il Dhamma che insegno non si discosta dai principi di verità che ho realizzato. Mi capite? Il Buddha insegnò esattamente lo stesso messaggio che insegno io. Detto questo, voglio esclamare: sãdhu! Sebbene io sia un semplice topo rispetto al Buddha, la conferma di quella realizzazione è proprio qui nel mio cuore. Nulla di ciò che ho realizzato pienamente in me stesso contraddice il Buddha in alcun modo. È totalmente in accordo con tutto ciò che il Buddha ha insegnato. L'insegnamento che presento si basa sui Principi della Verità che ho da tempo accettato con tutto il cuore. Ecco perché insegno alle persone con tale vigore, mentre diffondo il mio messaggio in tutta la Thailandia. Parlando in termini convenzionali, parlo con l'audacia di un eroe conquistatore. Ma il Supremo Dhamma nel mio cuore non è né audace né spaventoso. Non nasce da perdita né guadagno, da vittoria né sconfitta. Di conseguenza, il mio insegnamento deriva da una compassione pura e genuina. E' come se vedendo due cani azzuffarsi, afferrassi i cani e li separassi in modo che non continuino a mordersi l'un l'altro, senza aver alcun interesse, a chi sta vincendo e chi sta perdendo. Solo ai cani importa chi sta vincendo. Dal momento che sono loro a mordere, sono loro a soffrire. Io prendo semplicemente i cani e li separo in modo che non continuino a mordersi l'un l'altro. Tale è la natura del Dhamma. Il Dhamma cerca di separare le persone che litigano sempre; litigando sempre su chi ha ragione e chi ha torto. 5.L'attualità del Dhamma Così come quello che accade attualmente in Thailandia. Il confronto è inevitabile. Lasciate che il Dhamma parli da solo. In questo momento sono molto coinvolto con il mondo. Nessuno è più coinvolto di Achan Mahã Bua. Con ciò intendo dire che sono costantemente impegnato a separare i cani di questo mondo in modo che non si mordano l'un l'altro. In questi giorni sia laici che monaci si comportano come cani, tutti si spingono in avanti e ululano rumorosamente mentre combattono per i meriti. Quindi insegno loro il Dhamma, che tutto ciò equivale a prendere i cani da combattimento e separarli in modo che si calmino e smettano di mordere. Il Dhamma rappresenta la verità. Se abbandoniamo tutto ciò che è falso e ci atteniamo solo a ciò che è vero, allora sia le persone nella nostra società, che i monaci che sostengono il Sãssana (N.d.T.: l’Insegnamento) vivranno in pace. Ma poiché tutti i cani, sia quelli buoni, che quelli cattivi, stanno combattendo proprio ora, il Paese non sperimenta pace e tranquillità. Il Buddhasãssana (N.d.T.: l’Insegnamento del Buddha) considera i cuori delle persone come il principale campo di guerra. Questa grande arena è ora in frantumi e dispersa, perché quei cani stanno organizzando uno scontro nella zona che è più sacra per i cuori di tutti i thailandesi: il Buddhasassana. Quindi chiedo a tutti di smettere e di desistere, poiché non si può trarre alcun beneficio dal lottare come i cani. Sia quelli che vincono che quelli che perdono sono feriti in egual misura. In verità, non ci sono vincitori, solo perdenti! Quindi disimpegnatevi, indietreggiate e accettate la ragione come principio guida. In tal modo, la Thailandia, i suoi cittadini e il Sãsana avranno tutti pace e felicità. Quindi nulla di disastroso accadrà al paese. Coloro che digrignano i denti e si vantano che stanno sostenendo una causa giusta sono, senza eccezioni, già malamente sconfitti. Nessuno ha ragione, perché discutere è sempre sbagliato. Proprio come due pugili che se le danno sul ring: sia il vincitore che il perdente escono malconci e contusi. Chi può esserne orgoglioso? Non è qualcosa di cui vantarsi. La discussione promuove amarezza e risentimento in entrambe le parti. Diventa una battaglia di punti di vista e opinioni, un tentativo di glorificarsi che degenera in uno scontro urlante in cui nessuno ascolta la ragione. Tali cani hanno preso l'intera Thailandia come campo di battaglia e, se continuano, sono destinati a lasciare il Paese in rovina. Voglio che le persone di tutte le parti pensino a quello che ho detto. Con totale sincerità, ho appena versato le mie stesse lacrime nel tentativo di presentare questo Dhamma per far sì che il popolo thailandese lo ascolti. Se smettete di litigare ora, non si verificherà alcuna sciagura. Se dovessimo parlare in termini mondani della vittoria, allora quelli che hanno ragione vinceranno per il bene di una causa giusta, mentre quelli che ammettono di avere torto e accettano la sconfitta lo faranno anche per la stessa causa giusta. Quindi entrambe le parti si uniranno e andranno perfettamente d'accordo. Ma per quelli che si stanno azzannando a vicenda, senza che nessuna delle due parti si arrenda, non ci possono essere vincitori o perdenti, solo sangue che coprirà entrambe le parti. È accettabile? Non voglio vederlo accadere. La Thailandia è un paese buddhista. Non voglio sentire che i fedeli buddhisti stiano combattendo tra loro come cani e lasciano che il loro sangue scorra attraverso i sacri monasteri della nostra terra. Quindi, per favore, abbandonate questa follia. Alla fine, le regioni dell'inferno, i cieli, i mondi di Brahmã e il nibbãna garantiranno chi ha ragione e chi ha torto, chi è virtuoso e chi è malvagio. Quindi non commettere l'errore di pensare che state cadendo nell'inferno più profondo. Non crediate a quelle vostre opinioni autorevoli, che si discostano così tanto dal Dhamma del Buddha, poiché le Terre del Dhamma sono i paradisi e il nibbãna , che sono i domini di tutti gli individui virtuosi. Tali visioni aberranti non faranno altro che trascinarvi al livello di mordere e abbaiare, portando così incalcolabili rovine sulla vostra scia. Tali discorsi porteranno solo a un sanguinoso combattimento di cani. Ricordatelo bene! Oggi ho spiegato tutto al meglio. Sono passati 53 anni da quando ho raggiunto quel Supremo Dhamma. Oggi ho descritto quell'esperienza a vostro vantaggio. Mai contrastato, mai frustrato, questo Dhamma è sempre nel giusto. Si esprime in un modo che si adatta perfettamente a qualsiasi circostanza si presenti. Ad esempio, oggi si è espresso con una tale forza che le lacrime di Achan Mahã Bua sono sgorgate per essere viste da tutti. Questa è un'espressione di quanto sia davvero straordinario il Dhamma. Il Dhamma che insegno alle persone è lo stesso straordinario Dhamma. Non insegno mai il Dhamma in modo casuale, insegno sempre con contezza. Come ho spiegato molte volte, sono sempre stato propenso a sacrificare la mia vita per il bene del Dhamma. Nessuno crederebbe a quanti sforzi ho messo nella pratica. Dal momento che gli altri non hanno fatto ciò che ho fatto io, non possono immaginare lo sforzo straordinario che ho fatto per conseguire questo Supremo Dhamma. Mi sono applicato, e qui sono i risultati. Il che dimostra il potere della diligenza senza compromessi, quando viene utilizzata per il bene del Dhamma. Più determinazione c’è, meglio è. Allora uno morirà vittorioso, non gravemente sconfitto. Ricordatelo bene. Nei primi incontri in cui mi accingo a illustrare in cosa consista la pratica e che funzione abbia la "meditazione", un argomento che viene affrontato dopo poco è sulla natura e il valore della conoscenza, rispetto alla pratica del Nobile Sentiero.
Questo tema s'impone alla riflessione, non appena si è ben chiarito, che il Buddhasassana, la disciplina del Buddha, ha nella conoscenza, nella "visione retta", nella "gnosi", il veicolo che conduce alla "liberazione". A questo punto sorge la necessità di approfondire le caratteristiche dell'esperienza che sta alla base della conoscenza nell'accezione buddhista. Per fare questo puo' aiutare portare l'attenzione sulla parola thailandese "เข้าใจ", che si pronuncia, piu o meno "khào(u)chài(i)", che rende il nostro capire, comprendere, e intendere. La parola thailandese esprime con naturale immediatezza le diverse caratteristiche del modo peculiare di vedere sia i fenomeni fisici che psichici, della meditazione vipassana e della pratica più in generale. Questi aspetti devono essere ben tenuti presenti dallo yogi al fine di una completa visione della pratica. La parola thai è una parola composta, traducibile letteralmente con: "entrare-nel cuore" o "entrare-nella mente". Comprendere qualcosa nella lingua thai, vuol dire "entrare nel cuore" delle cose, "entrare nella natura" delle cose, "arrivare al centro" delle cose, "entrare nell'essenza" delle cose. La parola thai accoglie in sè un significato, che i termini con i quali siamo soliti tradurla nella nostra lingua, non riescono a renderlo con la stessa immediatezza. La conoscenza è l'entrare in intimità, l'avvicinarsi, il vedere da vicino, il discernere chiaramente il centro delle cose, il loro cuore, il vedere direttamente, tralasciando la "polpa", le membra, il corpo apparente e distraente, della cosa e dell'oggetto di investigazione. Questo conoscere, "เข้าใจ", questo andare verso il centro, più vicini al cuore delle cose mediante l'osservazione, è in definitiva coglierne la verità, che è il frutto ultimo di qualunque conoscenza. Questa verità è il Dhamma, è l'Insegnamento dei Buddha circa quel fenomeno. Secondo la pratica buddhista, conoscere è quindi quel volgere l'attenzione verso il Dhamma nelle cose, andando verso il cuore delle cose, al di là dei condizionamenti. La parola thailandese tuttavia offre altre riflessioni. Infatti essa puo' avere anche un valore "passivo" ed essere tradotto come, l'"entrare nel cuore" da parte delle cose, l'"entrare nella mente" da parte delle cose. In altri termini, la conoscenza in senso dhammico, è lo sviluppo di quell'attenzione verso il Dhamma delle cose, come esso si manifesta nel cuore, nella mente, nel centro di chi li osserva, al di là dei condizionamenti, direttamente. In questo caso, la conoscenza è intesa come conseguenza di un accogliere nel campo di attenzione, nel cuore, nella mente delle cose osservate. Entrambe le prospettive sono utili e da tenere conto nella dinamica meditativa in cui ci accingiamo a osservare i diversi fenomeni del corpo e della mente, nel "retto sforzo" di coglierne la natura. Questo retto sforzo, ora è più un andare verso il centro, un andare vicino, andare al centro; ora invece un accogliere nel cuore, nella mente, nel centro della nostra attenzione. §_Cos'è la meditazione Vipassana?
E'indubbiamente impossibile parlare della meditazione Vipassana, senza far riferimento alla tradizione millenaria che la ha trasmesso, coltivata e approfondita per ben ventisei secoli, ovvero alla dottrina di Gotama Siddhatha, detto il Buddha, che noi siamo soliti definire "Buddhismo". La parola "vipassana" inanzitutto è in lingua pali, affine al sanscrito, é una dei molteplici idiomi parlati nel subcontinente indiano all'epoca del Risvegliato, essa puo' essere tradotta con "visione penetrativa", "visione profonda". Nell'etimologia se ne intravede la definizione. Essa fa riferimento all'attività di conoscere qualcosa: vedere, guardare, osservare; e ad una qualità, a una modalità di questa attività: più da vicino, meglio, più chiaramente, più distintamente. Il tema della conoscenza, del vedere, del riconoscere e dell'inveramento di una verità, è il tema centrale dell'insegnamento del Buddha e lo caratterizza in maniera peculiare. Infatti il "ben-essere spirituale" è il frutto ultimo di una pervenuta conoscenza intuitiva e diretta, della natura degli oggetti sensibili, che ha saputo trascenderne l'apparente e abitudianiaria visione e ad accederne a un piano di compresione diverso. Questa conoscenza è liberatrice, è "salvifica" in senso spirituale, perchè affranca il cuore dalla sofferenza che deriva dai processi inconsapevoli e abitudinari che ne stanno alla base, alimentati dal "semplice" fatto di ignorarli e quindi dall'inconsapevole ripeterli sulla base di un'errata valutazione di "convenienza" o "ragionevolezza". Per il Buddha era chiaro che per superare la condizione fondamentale di ignoranza circa la natura propria dei fenomeni, era necessario conoscerli, ovvero averne una visione profonda, che fosse cioè in grado di coglierne la vera natura, al di là di quella apparente, condizionata e avvalorata soltanto dall'abititudine e dall'auto-convincimento. Per giungere a questa conoscenza liberatrice, il Buddha indica un metodo, che è rappresentato dal suo insegnamento, in senso generale e in particolare, dalla pratica delle visione profonda, ovvero quella modalità particolare di investigare i fenomeni sensibili, del corpo e della mente, che sia capace di far attingere alla loro reale natura, della cui ignoranza deriva come effetto finale, un'esperienza di disagio, se non anche dolorosa o penosa. Se comunemente evitiamo ciò che abbiamo chiaramente compreso in passato essere nocivo, per noi e gli altri, e li evitiamo nel futuro; nella pratica spirituale avviene qualcosa di simile. La differenza è nella qualità della comprensione, in virtù della natura degli oggetti osservati. Questa comprensione deve essere appunto "profonda" e "penetrativa". Tali specifiche qualità, possono essere garantite attraverso una modalità particolare di applicazione delle facoltà ordinarie di attenzione, investigazione e comprensione di ogni essere umano, che è appunto la coltivazione della visione profonda. §_Le caratteristiche della Vipassana. Questa modalità di vedere le cose, presenta diverse caratteristiche. In primis essa presuppone un punto di vista diverso, che non sia più quello abituale, che solitamente definiamo "mio", bensì una modalità "impersonale", in cui tutto ciò che si è soliti vedere, ascoltare, odorare, gustare, sentire e percepire da un punto di vista soggettivo, divengono nel momento d'attenzione (presente) oggetto di osservazione. Di essi se ne constata da subito la natura transitoria. Un processo continuo e ininterrotto di trasformazioni, in cui ogni fase condiziona il successivo, caratterizza il loro manifestarsi. Si osserva dei fenomeni il divenire. Questa visione diviene sempre più chiara, non distratta dall'abitudine della mente di "riappropriarsi" della più familiare visione personale delle cose, mano a mano che l'attenzione si accresce con il calmarsi della mente. Una calma che il praticante scopre autonomamente, avere gradi di maturità diversa e quindi "visioni", comprensioni, realizzazionidiversamente mature, rispetto ai medesimi fenomeni. La forza dell'abitudine di ritornare alla consolidata modalità di vedere le cose, secondo gli "schemi soggettivi" è l'altro condizionamento di cui si viene a scoprirne la costante presenza e se ne vede gli effetti. Si viene a conoscere anche il peso, il fardello, il prezzo che si deve pagare per il suo "conforto" e si diviene sempre più coscienti del senso "liberatorio" che deriva dall'assumere rispetto ai fatti, una modalità impersonale di vivere le cose, perchè affrancata dalle anguste logiche di coerenza alla visione abituale e personale. Là dove rispetto agli oggetti osservati e più in generale, ai fatti della quotidianità si è soliti entrare in relazione nei termini di giudizio e d'inferenza, nella medesima circostanza è possibile sviluppare una relazione diversa, nei termini di conoscenza e semplice esperienza, ovvero non giudicante, non discriminata cioè dai giudizi di valore del soggetto, bensì discreta dalla conoscenza diretta. Tutto il processo di apprendimento di questo "cambio di visione" è necessariamente graduale. Soltanto nel tempo, si puo' a poco a poco, trasformare ciò che con il tempo si è caparbiamente costruito e realizzato. Un processo che sarà diverso per ciascuno, strettamente legato alle condizioni che lo hanno predeterminato, con frutti ed esiti altrettanto diversi, che coinvolgeranno aspetti via via più intimi in base alla fiducia e alle qualità individuali. §_La pratica della presenza mentale e la quotidianità. Assodata la gradualità e la particolarità dei processi che sottendono all'emersione della visione altra, essi hanno in comune le modalità, il metodo, il "Sentiero" per il quale giungere alla medesima meta. Essi vengono trasmessi da un'interrotta trasmissione di generazioni di yogi. In questa sede, si possono solo tracciare delle linee generali, che ci possono aiutare a inquadrare l'argomento. In primo luogo, la pratica coinvolge l'intero arco delle nostre giornate, comprese le fasi oniriche; tutta la gamma delle nostre attività quotidiane; tutte le circostanze in cui la nostra persona incontra gli altri, nonchè sè medesima. La pratica consiste nel mantenere per quanto possibile e sempre più, la presenza mentale, l'attenzione e l'introspezione in tutti questi frangenti, per cogliere in essi una "verità", una comprensione, che sia in grado di liberarci dal suo gradiente, per quanto sottile, di tensione e ansia. Le attività sono diverse, diverse le circostanze e le casistiche nelle quali ci troveremo nel nostro vivere, a dover osservare e osservarci. Da ciò derivano le diverse "istruzioni" o "mezzi abili", che la tradizione ci consegna, ciascuno adeguato a ogni situazione. Il loro apprendimento prima, la loro acquisizione successiva e padronanza dopo, segnano le fasi della pratica di ogni yogi, al quale è affidata liberamente e responsabilmente la diligenza della sua pratica. La classica postura statica, che tutti associano al "fare meditazione buddhista" è semplicemente, l'esercitare questa disciplina, quando il corpo si trova fermo e seduto nel modo più semplice e naturale possibile. La stessa disciplina, rimodulata in forme adeguate, deve esistere per tutti i molteplici momenti della giornata. L'abilità che si acquisisce nel tempo e con l'esperienza di tali istruzioni, determina lo sviluppo dell' "attenzione" e della presenza mentale come stati stabili della mente e del nostro vivere. Essi diverranno la base della visione profonda, che ci permetterà di vivere gli stessi fenomeni, senza condizionarli con i fattori che ne hanno da sempre determinato la relazione e quindi l'esito necessariamente insoddisfacente. §_Gli esiti della pratica La conoscenza peculiare alla quale si perviene, nello stesso istante in cui essa sorge, determina come effetto un naturale stato di "compassione", di "gentilezza", di "sereno disicanto", di "empatia". Senza poter esaurire ora il tema, valgano queste considerazioni. Lo sguardo "clinico", oggettivante, dello yogi, che osserva semplicemente i fenomeni di un corpo e di una mente e non del suo corspo e della sua mente, fa sì che quanto emerga da quell'osservazione paziente, sia dunque legato a tutto il proprio genere o anche oltre. Lo sguardo si amplia: partito nel particolare e puntuale, si sviluppa nel generale, realizzando una diretta e intima relazione tra il relativo e l'assoluto. In questa "esplosione" di coscienza, in questa intuita relazione sta la sede del sorgere della "com-passione". Karuna, in lingua pali, è una qualità dell'animo, che la nostra parola compassione traduce parzialmente e in parte tradisce il senso del termine originale, che è chiaramente diverso dal senso di pietà che alla parola italia siamo soliti dare. A noi ora preme sottolineare, che conoscere la verità, non potrà mai apparire cosa nefasta, perniciosa, negativa o deprimente, per chi fa di essa un valore irrinunciabile, alla quale tributare il meglio delle forze, del tempo e delle risorse. La "visione impersonale" alla quale abbiamo spesso fatto riferimento, non determina una deficienza del nostro essere e della nostra umanità, bensi a un loro potenziamento. La tradizione ci insegna altresì che la gradualità del "trainig", del sentiero che alla verità deve preparare, è essenziale e propedeutica alla sua "metabolizzazione". Volendo semplificare il ragionamento, non esistono verità "scomode", ma solo la giusta modalità di arrivarvi e che la verità è inanzitutto una responsabilità. |
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May 2022
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