La domanda dalla quale trae origine tutta la nostra civilizzazione (Oriente o Occidente) é:”unde malo?”
Noi meditiamo per questo. Cerchiamo infaticabilmente la fonte dalla quale sorge la sofferenza nostra e degli altri. Ci facciamo silenti, immobili, ascoltiamo i pensieri e sentiamo le emozioni. Come fossimo segugi, seguiamo le loro orme, per stanare la sofferenza. Quelle orme formano un sentiero nascosto, impervio, in cui ogni passo é segnato dalla rettitudine. La rettitudine in questo caso é da intendersi anche in senso morale, ma sopratutto “tecnico”, come onestá, franchezza con quanto appreso. Questo sentiero é noto come “Il Nobile sentiero della via mediana”. Il sentiero é mediano, perché conduce alla sofferenza, passa attraverso la sofferenza, non la nega e tantomeno la combatte, ma ci passa in mezzo, senza astio, equanimamente, standoci in compagnia, standoci seduto davanti, con un cuore in agio, con coraggio appunto. Non può esserci nel cuore del meditante, l’ipocrisia, nel senso che egli deve essere capace di accettare le aporie, le incongruenze della sua condizione mondana. Deve avere il coraggio di vedersi rotto, non coerente, articolato, complesso, inconciliabile con i suoi ideali e desideri. Tutto questo finalmente permette al cuore di farsi umile e piccolo, per potersi liberare dalle strutture interiori che definiscono e sorreggono l’Io e il suo senso di potenza e volontà. Potrá ammettere finalmente, che il mare non può essere svuotato a cucchiaiate, a palate o altro mezzo mosso dalla volontá, fosse anche quella di tutti gli uomini del mondo insieme. A poco a poco al chiedersi come poter svuotare il mare, finalmente ci si può domandare, perché lo si vuole svuotare? Di fronte a tutto questo abbandono del senso e della volontà, emerge il silenzio. La meditazione é il lento esaurirsi delle condizioni che sostanziano di senso il sé. La meditazione é l’”olocausto” del sé e della sua volontà, del suo istinto alla sopravvivenza. Cessato il sopravvivere, emerge il vivere, dalla sopravvivenza alla vita autentica. É per questo che essa avviene in contesti, con simboli, modi e rituali religiosi. Una meditazione diversamente non sarebbe buddhista, risvegliante, bensì un “divertisement”, una distrazione dal turbinio della vita, non importa quali siano le intenzioni buone che la alimentano. Tradizionalmente, la somma rinuncia dell’addestramento, é quella dell’Io e del mio, del narcisismo morale, intellettuale e spirituale. Questa rinuncia é scenograficamente rappresentata dalla meditazione assisa. Questa catarsi profonda, libera il cuore e la mente dalle visioni errate, non rette, ovvero disoneste e ipocrite, manipolative, captive che vedono la realtà come qualcosa da modificare, variare secondo le necessità dell’ego. Essa rende possibile un’esistenza non condizionata, quindi libera dalla sofferenza che ne deriva. Questa possibilità é il Nibbana. Il senso profondo della pratica é risvegliarsi a questa possibilità intrinseca alla condizione umana, é risvegliarsi all’umanità, é la nostra umanizzazione, é il compimento della nostra nascita. In questo senso si é figli del Buddha, praticanti buddhisti, la meditazione é buddhista: tutte queste cose hanno come orizzonte e motivazione, realizzare il risveglio, il Buddha, seguendo le orme, gli insegnamenti e le indicazioni dei “Nobili esseri”, i risvegliati.
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May 2022
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