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CENTRO BUDDHISTA LOKANATHA

Centro di meditazione per la pratica e l'insegnamento buddhista.

Il "conoscere", la meditazione e il thailandese.

16/10/2018

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Nei primi incontri in cui mi accingo a illustrare in cosa consista la pratica e che funzione abbia la "meditazione", un argomento che viene affrontato dopo poco è sulla natura e il valore della conoscenza, rispetto alla pratica del Nobile Sentiero.
Questo tema s'impone alla riflessione, non appena si è ben chiarito, che il Buddhasassana, la disciplina del Buddha, ha nella conoscenza, nella "visione retta", nella "gnosi", il veicolo che conduce alla "liberazione".

A questo punto sorge la necessità di approfondire le caratteristiche dell'esperienza che sta alla base della conoscenza nell'accezione buddhista.
Per fare questo puo' aiutare portare l'attenzione sulla parola thailandese "​เข้าใจ", che si pronuncia, piu o meno "khào(u)chài(i)", che rende il nostro capire, comprendere, e intendere. La parola thailandese esprime con naturale immediatezza le diverse caratteristiche del modo peculiare di vedere sia i fenomeni fisici che psichici, della meditazione vipassana e della pratica  più in generale. Questi aspetti devono essere ben tenuti presenti dallo yogi al fine di una completa visione della pratica.
La parola thai è una parola composta, traducibile letteralmente con: "entrare-nel cuore" o "entrare-nella mente". Comprendere qualcosa nella lingua thai, vuol dire "entrare nel cuore" delle cose, "entrare nella natura" delle cose, "arrivare al centro" delle cose, "entrare nell'essenza" delle cose.  
La parola thai accoglie in sè un significato, che i termini con i quali siamo soliti tradurla nella nostra lingua, non riescono a renderlo con la stessa immediatezza.
La conoscenza è l'entrare in intimità, l'avvicinarsi, il vedere da vicino, il discernere chiaramente il centro delle cose, il loro cuore, il vedere direttamente, tralasciando la "polpa", le membra, il corpo apparente e distraente, della cosa e dell'oggetto di investigazione.

Questo conoscere, "​เข้าใจ",  questo andare verso il centro, più vicini al cuore delle cose mediante l'osservazione, è in definitiva coglierne la verità, che è il frutto ultimo di qualunque conoscenza.
Questa verità è il Dhamma, è l'Insegnamento dei Buddha circa quel fenomeno.
Secondo la pratica buddhista, conoscere è quindi quel volgere l'attenzione verso il Dhamma nelle cose, andando verso il cuore delle cose, al di là dei condizionamenti.
 
La parola thailandese tuttavia offre altre riflessioni.
Infatti essa puo' avere anche un valore "passivo" ed essere tradotto come, l'"entrare nel cuore" da parte delle cose, l'"entrare nella mente" da parte delle cose. In altri termini, la conoscenza in senso dhammico, è lo sviluppo di quell'attenzione verso il Dhamma delle cose, come esso si manifesta  nel cuore, nella mente, nel centro di chi li osserva, al di là dei condizionamenti, direttamente.
In questo caso, la conoscenza è intesa come conseguenza di un accogliere nel campo di attenzione, nel cuore, nella mente delle cose osservate.

Entrambe le prospettive sono utili e da tenere conto nella dinamica meditativa in cui ci accingiamo a osservare i diversi fenomeni del corpo e della mente, nel "retto sforzo" di coglierne la natura. Questo retto sforzo, ora è più un andare verso il centro, un andare vicino, andare al centro; ora invece un accogliere nel cuore, nella mente, nel centro della nostra attenzione.
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Cos'è la meditazione vipassana?

5/10/2018

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​§_Cos'è la meditazione Vipassana?
E'indubbiamente impossibile parlare della meditazione Vipassana, senza far riferimento alla tradizione millenaria che la ha trasmesso, coltivata e approfondita per ben ventisei secoli, ovvero alla dottrina di Gotama Siddhatha, detto il Buddha, che noi siamo soliti definire "Buddhismo".
La parola "vipassana" inanzitutto è in lingua pali, affine al sanscrito, é una dei molteplici idiomi parlati nel subcontinente indiano all'epoca del Risvegliato, essa puo' essere tradotta con "visione penetrativa", "visione profonda". Nell'etimologia se ne intravede la definizione. Essa fa riferimento all'attività di conoscere qualcosa: vedere, guardare, osservare; e ad una qualità, a una modalità di questa attività: più da vicino, meglio, più chiaramente, più distintamente.

Il tema della conoscenza, del vedere, del riconoscere e dell'inveramento di una verità, è il tema centrale dell'insegnamento del Buddha e lo caratterizza in maniera peculiare.
Infatti il "ben-essere spirituale" è il frutto ultimo di una pervenuta conoscenza intuitiva e diretta, della natura degli oggetti sensibili, che ha saputo trascenderne l'apparente e abitudianiaria visione e ad accederne a un piano di compresione diverso.

Questa conoscenza è liberatrice, è "salvifica" in senso spirituale, perchè affranca il cuore dalla sofferenza che deriva dai processi inconsapevoli e abitudinari che ne stanno alla base, alimentati dal "semplice" fatto di ignorarli e quindi dall'inconsapevole ripeterli sulla base di un'errata valutazione di "convenienza" o "ragionevolezza".
Per il Buddha era chiaro che per superare la condizione fondamentale di ignoranza circa la natura propria dei fenomeni, era necessario conoscerli, ovvero averne una visione profonda, che fosse cioè in grado di coglierne la vera natura, al di là di quella apparente, condizionata e avvalorata soltanto dall'abititudine e dall'auto-convincimento.

Per giungere a questa conoscenza liberatrice, il Buddha indica un metodo, che è rappresentato dal suo insegnamento, in senso generale e in particolare, dalla pratica delle visione profonda, ovvero quella modalità particolare di investigare i fenomeni sensibili, del corpo e della mente, che sia capace di far attingere alla loro reale natura, della cui  ignoranza deriva come effetto finale, un'esperienza di disagio, se non anche dolorosa o penosa.
Se comunemente evitiamo ciò che abbiamo chiaramente compreso in passato essere nocivo, per noi e gli altri, e li  evitiamo nel futuro; nella pratica spirituale avviene qualcosa di simile. La differenza è nella qualità della comprensione, in virtù della natura degli oggetti osservati. Questa comprensione deve essere appunto "profonda" e "penetrativa". Tali specifiche qualità, possono essere garantite attraverso una modalità particolare di applicazione delle facoltà ordinarie di attenzione, investigazione e comprensione di ogni essere umano, che è appunto la coltivazione della visione profonda.


§_Le caratteristiche della Vipassana.
Questa modalità di vedere le cose, presenta diverse caratteristiche.
In primis essa presuppone un punto di vista diverso, che non sia più quello abituale, che solitamente definiamo "mio", bensì una modalità "impersonale", in cui tutto ciò che si è soliti vedere, ascoltare, odorare, gustare, sentire e percepire da un punto di vista soggettivo, divengono nel momento d'attenzione (presente) oggetto di osservazione. 

Di essi se ne constata da subito la natura transitoria. Un processo continuo e ininterrotto di trasformazioni, in cui ogni fase condiziona il successivo, caratterizza il loro manifestarsi. Si osserva dei fenomeni il divenire.
Questa visione diviene sempre più chiara, non distratta dall'abitudine della mente di "riappropriarsi" della più familiare visione personale delle cose, mano a mano che l'attenzione si accresce con il calmarsi della mente. Una calma che il praticante scopre autonomamente, avere gradi di maturità diversa e quindi "visioni", comprensioni, realizzazionidiversamente mature, rispetto ai medesimi fenomeni.

La forza dell'abitudine di ritornare alla consolidata modalità di vedere le cose, secondo gli "schemi soggettivi" è l'altro condizionamento di cui si viene a scoprirne la costante presenza e se ne vede gli effetti.  Si viene a conoscere anche il peso, il fardello, il prezzo che si deve pagare per il suo "conforto" e si diviene sempre più coscienti del senso "liberatorio" che deriva dall'assumere rispetto ai fatti, una modalità impersonale di vivere le cose, perchè affrancata dalle anguste logiche di coerenza alla visione abituale e personale.

Là dove rispetto agli oggetti osservati e più in generale, ai fatti della quotidianità si è soliti entrare in relazione nei termini di giudizio e d'inferenza, nella medesima circostanza è possibile sviluppare una relazione diversa, nei termini di conoscenza e semplice esperienza, ovvero non giudicante, non discriminata cioè dai giudizi di valore del soggetto, bensì discreta dalla conoscenza diretta.
Tutto il processo di apprendimento di questo "cambio di visione" è necessariamente graduale. Soltanto nel tempo, si puo' a poco a poco, trasformare ciò che con il tempo si è caparbiamente costruito e realizzato. Un processo che sarà diverso per ciascuno, strettamente legato alle condizioni che lo hanno predeterminato, con frutti ed esiti altrettanto diversi, che coinvolgeranno aspetti via via più intimi in base alla fiducia e alle qualità individuali.

§_La pratica della presenza mentale e la quotidianità.
​​Assodata la gradualità e la particolarità dei processi che sottendono all'emersione della visione altra, essi hanno in comune le modalità, il metodo, il "Sentiero" per il quale giungere alla medesima meta. Essi vengono trasmessi da un'interrotta trasmissione di generazioni di yogi. In questa sede, si possono solo tracciare delle linee generali, che ci possono aiutare a inquadrare l'argomento.

In primo luogo, la pratica coinvolge l'intero arco delle nostre giornate, comprese le fasi oniriche; tutta la gamma delle nostre attività quotidiane; tutte le circostanze in cui la nostra persona incontra gli altri, nonchè sè medesima. La pratica consiste nel mantenere per quanto possibile e sempre più, la presenza mentale, l'attenzione e l'introspezione in tutti questi frangenti, per cogliere in essi una "verità", una comprensione, che sia in grado di liberarci dal suo gradiente, per quanto sottile, di tensione e ansia.
Le attività sono diverse, diverse le circostanze e le casistiche nelle quali ci troveremo nel nostro vivere, a dover osservare e osservarci. Da ciò derivano le diverse "istruzioni" o "mezzi abili", che la tradizione ci consegna, ciascuno adeguato a ogni situazione. Il loro apprendimento prima, la loro acquisizione successiva e padronanza dopo, segnano le fasi della pratica di ogni yogi, al quale è affidata liberamente e responsabilmente la diligenza della sua pratica. 
La classica postura statica, che tutti associano al "fare meditazione buddhista" è semplicemente, l'esercitare questa disciplina, quando il corpo si trova fermo e seduto nel modo più semplice e naturale possibile. La stessa disciplina, rimodulata in forme adeguate, deve esistere per tutti i molteplici momenti della giornata. L'abilità che si acquisisce nel tempo e con l'esperienza di tali istruzioni, determina lo sviluppo dell' "attenzione" e della presenza mentale come stati stabili della mente e del nostro vivere. Essi diverranno la base della visione profonda, che ci permetterà di vivere gli stessi fenomeni, senza condizionarli con i fattori che ne hanno da sempre determinato la relazione e quindi l'esito necessariamente insoddisfacente.


§_Gli esiti della pratica
La conoscenza peculiare alla quale si perviene, nello stesso istante in cui essa sorge, determina come effetto un naturale stato di "compassione", di "gentilezza", di "sereno disicanto", di "empatia". Senza poter esaurire ora il tema, valgano queste considerazioni.
Lo sguardo "clinico", oggettivante, dello yogi, che osserva semplicemente i fenomeni di un corpo e di una mente e non del suo corspo e della sua mente, fa sì che quanto emerga da quell'osservazione paziente, sia dunque legato a tutto il proprio genere o anche oltre. Lo sguardo si amplia: partito nel particolare e puntuale, si sviluppa nel generale, realizzando una diretta e intima relazione tra il relativo e l'assoluto. In questa "esplosione" di coscienza, in questa intuita relazione sta la sede del sorgere della "com-passione". Karuna, in lingua pali, è una qualità dell'animo, che la nostra parola compassione traduce parzialmente e in parte tradisce il senso del termine originale, che è chiaramente diverso dal senso di pietà che alla parola italia siamo soliti dare.

A noi ora preme sottolineare, che conoscere la verità, non potrà mai apparire cosa nefasta, perniciosa, negativa o deprimente, per chi fa di essa un valore irrinunciabile, alla quale tributare il meglio delle forze, del tempo e delle risorse. 
La "visione impersonale" alla quale abbiamo spesso fatto riferimento, non determina una deficienza del nostro essere e della nostra umanità, bensi a un loro potenziamento.
La tradizione ci insegna altresì che la gradualità del "trainig", del sentiero che alla verità deve preparare, è essenziale e propedeutica alla sua "metabolizzazione". Volendo semplificare il ragionamento, non esistono verità "scomode", ma solo la giusta modalità di arrivarvi e che la verità è inanzitutto una responsabilità.
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