Possa la memoria di Isa essere per noi, veicolo di bene, per il nostro beneficio e degli altri! Possa cosi Isa partecipare al bene, che in sua memoria verrà da noi compiuto! Come l'acqua piovana, caduta su una collina scorre a valle, cosi possa quanto è qui offerto andare a beneficio dei trapassati. Come i fiumi pieni d'acqua riempiono l'oceano, così possa quanto è qui offerto andare a beneficio dei trapassati. Sadhu, sadhu, sadhu. In questi giorni, la cristianità celebra la Settimana Santa, che ha il suo culmine nella celebrazione pasquale. È un tempo importante di riflessione, che cade in concomitanza del capodanno tradizionale del sudest asiatico, noto come “Festa dell’acqua”. Il riferimento all’acqua non è casuale. Notoriamente, questo elemento è un archetipo la cui simbologia rimanda all'acqua quale fonte della vita e veicolo di purificazione. Le sue qualità fisiche ci suggeriscono la transitorietà, il passaggio da una condizione ad un’altra.
Entrambe le ricorrenze, che cadono in un periodo di transizione tra stagioni diverse (dalla stasi dell’inverno alla vitalità della primavera, nei climi temperati; dalla stagione secca ai monsoni, in quelli tropicali), a livello spirituale e morale evocano un’opportunità, un tempo di trasformazione, di purificazione e di transizione in riferimento alla diade morte/nascita. La ciclicità della natura produce in noi delle forti suggestioni circa l’impermanenza di tutte le cose, e ci induce a riflettere sul tempo e su quelli che ci appaiono essere il loro inizio e la loro fine: la nascita e la morte. La nascita, in una percezione ciclica del tempo, è più precisamente definibile come “rinascita”; ma parlare di rinascita equivale a parlare della morte. La Prima Nobile Verità Nella tradizione buddhista, la riflessione su nascita e morte è centrale. Nascita e morte sono citate nella Prima Nobile Verità quali specificazioni di dukkha, la sofferenza esistenziale; una sofferenza, che cessa nel momento in cui viene “compresa”. Questa verità, per quanto palese per tutti gli esseri senzienti, senza distinzioni, è nello stesso tempo sfuggente: la coscienza costantemente la dimentica o la nasconde a sé. È solo con un grande acume e un costante addestramento che la coscienza può “risvegliarsi” e vivere alla luce di questa verità fondamentale. È per questo che la tetrade delle Nobili Verità inizia con la dichiarazione, solenne e lapidaria, che nella vita ci sono nascita e morte, legati inesorabilmente da una relazione di causalità. Abbiamo detto che questo “risvegliarsi” alla verità dell'esistenza della nascita/morte è possibile solo attraverso una disciplina, attraverso un lavoro, che vuole procurarci una gnosi, una conoscenza circa la verità della relazione tra la nascita e la morte; termini che, almeno in apparenza, condizionano il tempo vissuto, circoscrivendone e limitandone la durata. Il risveglio del Buddha è spiegato dalla tradizione come la piena comprensione della legge di causa-effetto, che regola il ciclico perpetuarsi della rinascita di tutti gli esseri senzienti, e la piena comprensione delle Sue stesse esistenze. La meditazione, sentiero percorso dal Buddha, può essere intesa come la porta d’accesso attraverso la quale possiamo comprendere, e vedere chiaramente, il processo che alimenta questo eterno movimento e, nello stesso tempo, attingere, attraverso ciò che viviamo e osserviamo, il Dhamma, la Verità senza tempo. L’osservazione della ciclicità del respiro è scelta come fondamento della pratica meditativa, anche perché essa ci induce a confrontarci con uno dei processi centrali della nostra esistenza, senza il quale niente sarebbe possibile. Tuttavia, a ben vedere questo centro è intrinsecamente “vuoto”; vuoto di una volontà o determinazione soggettiva: il respiro avanza e si consuma per una ragione che gli è propria, e che sembra non appartenerci. La meditazione, quindi, è un metodo rigoroso, che vuole indurci a cogliere la Verità a partire dall’osservazione di quelle realtà che si manifestano attraverso i nostri sensi, ma che costantemente neghiamo, ivi compresa la verità della morte. Una dose di “Dhammacotic” La stessa sensazione che si stia “esagerando”, o che si voglia “cavillare” su ciò che è lapalissiano, è in verità una strategia di fuga. La difficoltà che avvertiamo nel dire in maniera efficace ai bambini cosa siano la nascita e la morte, se non con improbabili metafore, evidenzia la nostra “ignoranza” rispetto a questi due fatti; una ignoranza, che condiziona il nostro esistere più di ogni altra cosa. La stessa pandemia di Covid-19 ci offre molto su cui riflettere. La quarantena è un volersi non contagiare con la morte, un voler chiudere fuori di noi ciò che non vogliamo. Il vaccino che cerchiamo è il vaccino contro la nostra mortalità. La mente vaga, chiusa nelle angustie degli spazi domestici, tra mille pensieri e fantasie, finanche a sognare nuove prospettive per una Terra e un’umanità nuove che possano sorgere a seguito di questa “espiazione” globale. Ma, non c’è nessuna colpa. È semplicemente quello che è sempre stato: nascere e morire! La morte non può essere una colpa, come la nascita non è un premio. Tutti gli insegnamenti dei venerabili, in questi giorni, ci invitano a vedere quello che abbiamo davanti, a realizzare il “vedere le cose come sono”; e cioè, ci invitano a guardare alla morte, alla sua evidenza, con coraggio e saggezza, senza divagare e perderci, facendo emergere quel coraggio e quella saggezza da quel “mettersi davanti alle cose”, alla Verità di quelle cose. Nel ricco “armamentario del meditante”, la tradizione ci consegna la riflessione sulla morte nella sua crudezza, presentata esattamente per quella che è. Proprio perché non riusciamo a vederla. È sintomatico il fatto che la proposta della Prima Nobile Verità ci venga dalla realtà stiamo vivendo attraverso la virulenza dell’epidemia, ma noi non la vediamo. Se abbiamo comunque provato a meditare, abbandonandoci al silenzio, senza altra guida che le nostre insicurezze, la nostra stessa pratica è probabilmente divenuta una dose di “Dhammacotic”, un semplice mezzo per calmarci, per ingentilirci, per poter stare meglio con le nostre paure, dimenticandoci che le paure non sono un problema da esorcizzare, ma un’opportunità per la nostra piena umanizzazione; una umanizzazione che deve necessariamente passare per l’accettazione della nostra natura mortale. La compassione, la gentilezza amorevole, l’equanimità, l’altruismo più autentici, tanto evocati, non possono che sorgere dalla chiara intuizione della nostra incertezza, della nostra paura della sofferenza e della nostra ignoranza; e dalla chiara intuizione che tutto questo, ora, è la condizione dell’intera umanità. Si tratta di una constatazione non intellettuale, ma che sorge dal “vedere” i contenuti dei pensieri nella propria mente, dal saggiare il sapore delle emozioni del proprio cuore e dal sentire gli spasmi del proprio corpo, senza alcuna sofisticazione o mediazione intellettuale. Non averne paura, offrirsi ad essi, offrirsi loro in pasto. Cogliere attraverso l’osservazione di noi stessi una verità che coinvolge tutti gli uomini e tutti gli esseri senzienti, che in quanto tali vivono la stessa condizione, ci apre alla “compassione” più autentica; una compassione capace di decondizionarci dagli attaccamenti. L'odio verso gli altri, il mancato rispetto delle restrizioni, è stato possibile perché, in quel momento, non vedevamo la verità e la realtà della nostra morte e, quindi, nemmeno di quella degli altri. “Il trasferimento dei meriti” Nella pratica quotidiana, sappiamo quanto sia importante essere presenti a se stessi e consapevoli delle cose che ci accadono. Tuttavia, sappiamo che c’è bisogno anche di altro per poter comprendere quanto stiamo osservando. Per quanto io possa vedere chiaramente le lettere, averle memorizzate e aver imparato a trascriverle, questo non mi permette di leggere e comprendere quanto vedo. Per sviluppare questa capacità è importante avere delle istruzioni e applicarsi con la pratica. La tradizione ci mette in guardia quando ci dice che il fine dell’addestramento è quello di renderci “liberi”. Il Nibbana, d’altra parte, non è uno scopo tra altri scopi possibili, ma è la “liberazione” dall’orizzonte dei fini particolari. Per comprendere questo paradosso è importante acquisire istruzioni ed insegnamenti e addestrarsi. A tal proposito abbiamo parlato delle riflessioni e delle formule tradizionali sui vari soggetti dell’addestramento sui quali occorre applicare la nostra attenzione, per sviluppare una “sensibilità” e indurre una predisposizione della mente e del cuore che possano procurarci profonde intuizioni. Ve ne sono diverse che trattano specificamente della vita e della morte. La tradizione, tuttavia, ci fornisce un’altra possibilità fondata su gesti e simbologie semplici, che si esprimono in un rito: “il trasferimento dei meriti” o “dedica dei meriti”. Questa pratica tradizionale può rappresentare un abile espediente per la nostra comprensione, se integrata in un percorso più ampio e completo. Tutti gli insegnamenti buddhisti hanno diversi livelli di profondità, in riferimento alla maturità di pratica e di vita del praticante stesso. Questa pratica non è da meno. Tuttavia, è bene sottolineare che, qualsiasi sia questo livello, essa pone di fronte al meditante la verità dell’ineluttabilità della morte, propria e di tutti gli esseri senzienti. Il rito, in genere, ha per soggetto un defunto, qualcuno che faceva parte della sfera delle conoscenze del praticante. Il praticante è indotto a prendere consapevolezza della morte, a vederla come cosa certa e vicina a noi. A un primo livello di comprensione, il praticante crede che il bene che sente, che nasce dal coltivare un sentimento di connessione e benevolenza con chi non c’è più, siano trasferibili, comunicabili, “cedibili” per la migliore rinascita di quello che fu il suo caro, in virtù dell’interdipendenza tra i fenomeni in campo. Il “merito” è, prima di tutto, una sana abitudine che si consolida attraverso la ripetizione e l’approfondimento dei suoi effetti. Il “merito” è la sana abitudine di osservare come nel cuore e nella mente sorge un bene attraverso il “lasciar andare”; un lasciar andare che si esprime in atti di generosità e meditazione, nonché nel fatto stesso di lasciar andare il “merito”, offrendolo a beneficio di altri. Il merito, poi, si radica e cresce in altre virtù, i cui frutti possono essere colti dal praticante e da chi gli sta vicino, potenzialmente in un processo senza limiti. Il rito e i suoi simboli permettono di accedere ad una relazione diversa con la realtà, superando barriere di spazio, di tempo e di logica ordinaria dei fatti. Facciamo un esempio. In un contesto familiare o in una comunità come la nostra, “dedicare i meriti alla memoria di qualcuno”, in thai ทำบุญ (tham bun), ha delle implicazioni su vari piani, non semplici da spiegare, a partire dal tempo in cui tutti i “soggetti” sono ancora in vita. Una madre crescerà ed educherà i suoi figli all’insegna del bene e cercherà in tutti i modi di adempiere al suo ruolo di madre, coltivando il Dhamma, sviluppando tutte le virtù e ispirando i figli, sapendo che, a seconda di quante buone abitudini svilupperà in sé e nei figli, lei avrà modo di “tornare” a ispirare i figli, a guidarli ed educarli, anche dopo la propria morte: ogni volta che i figli agiranno e praticheranno il Dhamma, si ispireranno a lei proprio dedicandole i meriti e la gratitudine. La madre si prepara in vita ad essere “campo di merito” per i figli, dopo la morte, continuando così ad educarli nel bene, mantenendosi in una relazione materna, di nutrice dello spirito, oltre i limiti fisici, e offrendosi, ancora una volta, come strumento per la realizzazione de loro bene. Chi rimane in vita svilupperà qualità positive che condizioneranno il mondo, rendendo possibile la migliore “rinascita” materna. In una comunità in cui certe cose sono coltivate e tenute in alta considerazione, non possono che prodursi esiti positivi. Ad un altro livello, la simbologia dell’acqua, con il semplice rito del versare l’acqua da un contenitore pieno ad un contenitore vuoto, offre ad una mente aperta ed attenta la possibilità di diverse riflessioni. Il “merito” è spesso definito, in lingua thai, come “acqua del cuore”, “flusso del cuore”, น้ำหัวใจ (nam chai). L'acqua fluisce dalla fonte della nostra esperienza e si espande e si riversa, permeando la realtà che ci circonda, condizionandola positivamente. L’acqua, simbolo di vita, è un elemento che riempie e pervade lo spazio in cui è contenuta. Assume la forma del contenitore, adeguandosi plasticamente ad esso, senza lasciare vuoti, con continuità e fluidità. Per le sue caratteristiche, essa evoca vinnam, la coscienza, l’aggregato che anima il corpo, del quale rappresenta la forza vitale. L’acqua è un ottimo diluente, assorbe le impurità che sono presenti nei diversi contenitori e li porta con sé, mantenendone le tracce e la “memoria”, ma senza che siano alterate le proprie caratteristiche fisiche. L’acqua che viene travasata, ci rimanda all’insegnamento della “rinascita”. L’acqua spegne la sete. Essa riempie i calici per spegnere la sete. Essa va dal pieno al vuoto, per osmosi, secondo una legge naturale. I contenitori, di diversa capacità e forma, evocano rupam, l’aggregato del corpo, che invece è inerte, statico, inanimato, e con le sue impurità contamina l’acqua che passa di contenitore in contenitore. Solo in contenitori più puri, trasparenti, cristallini, permettono di osservarne le impurità che sono dissolte nel fluido. Solo guardando attraverso un corpo trasparente e sottile, più da vicino, sarà possibile osservare distintamente l’acqua e ciò che la inquina. La sete non cessa con il semplice versare liquidi nei calici, ma solo se finalmente si beva, a condizione, però, che l’acqua sia pura; una purezza, che è possibile ripristinare solo lasciandola decantare, lasciandola ferma. È chiaro che questo ci rinvia alla pratica meditativa. Solo dopo aver finalmente potuto bere, ecco che la sete cessa. In questo c’è l’auspicio che tutti noi, e il defunto, si possa giungere a dissetarci e cessare di travasare fluidi, accumulando impurità. In questa sintetica spiegazione, abbiamo voluto riflettere insieme su quali siano le implicazioni di insegnamenti e riti maturati nel corso di secoli, su quanto i linguaggi simbolici e i rituali possano insegnarci e possano favorire in noi il sorgere di intuizioni e comprensioni profonde. Il senso peculiare del discorso ai Kalama Accogliere nelle nostre pratiche determinati insegnamenti non verbali e sviluppare il Dhamma in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue dottrine, al di là delle nostre convinzioni, non significa credere e aderire ciecamente ad esse. Si tratta, invece, di realizzare il senso profondo del discorso fatto ai Kalama, che spesso viene citato senza comprenderne a pieno le implicazioni. Si tratta, cioè, di verificare e sottoporre questi insegnamenti al vaglio dell’esperienza, da dentro il sistema che si vuole sperimentare, entrando nel sistema, attuando l’insegnamento, e non rimanendo all’esterno di essi, fermi nelle nostre convinzioni, da quella posizione egocentrica a partire dalla quale siamo soliti esercitare le nostre facoltà critiche. La verifica implica il provare a guardare il mondo dalla prospettiva del sistema che si vuole verificare, con gli strumenti che quel sistema ci propone. Fare il contrario sarebbe metodologicamente sbagliato, oltre che sterile. Nello sforzo di assumere un nuovo sguardo sulle cose, è evidente che il Dhamma ha già iniziato ad agire, sciogliendo le incrostazioni dell’ egocentrismo. Questo atteggiamento di accoglienza di ciò che non si conosce, di non giudizio nella consapevolezza di essere ignoranti, permetterà l’emergere del significato dai fatti, dai gesti che si stanno compiendo; a patto, quindi, che la pratica venga agita e non rimanga solo sul piano teorico. Riflettere storicamente o sociologicamente sugli insegnamenti intorno alla “rinascita” può essere utile sul piano culturale, ma non su quello spirituale. Sono due piani distinti. L'invito della tradizione è a praticare tali insegnamenti e, nel caso, a riflettere su di essi come sull’orizzonte dei significati nel quale abbiamo deciso di entrare per conoscerne la realtà. Ecco che, osservare la mente, il corpo, l’“acqua” che scorrere nella quotidianità con uno sguardo più ampio, come la tradizione ci insegna, ci può permettere di cogliere aspetti che altrimenti, dal di fuori, non avremmo mai potuto cogliere. Assumere l’insegnamento in tutti i suoi aspetti è una sfida che a poco a poco un praticante deve essere capace di raccogliere. Bisogna rispondere alla “sfida” del Buddha e verificarne l’insegnamento a casa sua, vincere il “derby” con il Buddha, giocando la partita fuori casa! Altrimenti, non ha alcun senso allenarsi. Allora, lo stesso stare nel presente, il “qui e ora” della meditazione, ma anche quello della vita quotidiana, non avranno più lo stesso significato, ma un sapore di eterno. Associazione Abruzzese Buddhista Buddhadharma
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May 2022
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